Una curiosità degna di nota è che tra i vari elementi comuni a tutte le lingue naturali c’è la negazione.
Questo ci suggerisce che la negazione sia un meccanismo insito nella cognizione umana, un po’ come la capacità di distinguere diverse numerosità, che accomuna anche i neonati con poche ore di vita.
Ma se tutte le lingue naturali prevedono una negazione, indipendentemente dai diversi aspetti culturali dei parlanti, cosa succede all’interno del nostro cervello quando neghiamo verbalmente (o sentiamo qualcuno che lo fa)? Non lo sappiamo ancora bene: le basi neurali della nostra capacità cognitiva di elaborare una negazione sono misteriose perché la negazione è un'operazione linguistica complessa che non si limita a invertire il significato di una frase, ma lo modifica in modi più sottili. Capire come il cervello gestisce questa complessità richiede strumenti sofisticati e approcci innovativi.
Il problema, infatti, è che la negazione implica un’assenza. In parole semplici: se io dico “Il gatto non è sul tavolo”, non solo il gatto potrebbe essere da qualsiasi altra parte, ma sul tavolo potrebbero esserci moltissimi altri oggetti. La conseguenza è che la negazione richiederà più tempo per essere processata rispetto alle affermazioni (ok, ho un’informazione, cioè quella che sul tavolo non c’è nessun gatto. Ma dov’è il gatto? E cosa c’è sul tavolo?), e che non ci restituirà un’immagine mentale precisa. Gli elementi da analizzare aumentano, e con essi i tempi di reazione: questo rende difficile isolare e studiare le specifiche reazioni neurali associate alla negazione.
Negli ultimi anni, però, la ricerca ha cercato di indagare questo aspetto attraverso alcuni escamotage. Lo hanno fatto per esempio alcuni ricercatori, coordinati da Arianna Zuanazzi, analizzando l’effetto della negazione sugli aggettivi scalari e restituendo i risultati in un articolo su Plos Biology.
La negazione interagisce con altri fattori linguistici come il contesto del discorso e la pragmatica, quindi la negazione può ritrarre una realtà in modo impreciso: un articolo di Coopmans e altri, che cita il lavoro di Zuanazzi, fa l’esempio di un bambino che tiene fastidiosamente il dito vicino al viso di suo fratello. Se i genitori lo volessero rimproverare e gli chiedessero cosa sta facendo, il bambino risponderebbe “Non lo sto toccando”. A livello logico la frase è vera, ma non ci restituisce la complessità dello scenario, in cui il fratello infastidito è giustificato. La negazione è quindi un’astrazione prodotta dal cervello umano, ed è in qualche modo separata dalle condizioni puramente fisiche.
“ La questione è che non esistono fatti negativi Andrea Moro
I ricercatori hanno quindi deciso di studiare il meccanismo della negazione rispetto agli aggettivi scalari cioè quelli che possono essere usati per esprimere gradi diversi di una certa caratteristica e che possono essere utilizzati in una comparazione. Ad esempio, qualcosa può essere "abbastanza buono", "molto buono" o "non tanto buono", indicando diverse posizioni lungo la scala della bontà, a differenza degli aggettivi categorici/assoluti come per esempio “quadrato” o “mortale”. In questo caso gli aggettivi scalari diventano particolarmente utili perché permettono di osservare come la negazione ("non buono") influisce sulla rappresentazione neurale di queste qualità lungo la scala.
I partecipanti all’esperimento hanno letto alcune frasi che comparivano su uno schermo. Queste frasi potevano contenere aggettivi scalari, e bisognava spostare il cursore del mouse lungo una scala visuale che rappresenta un continuum di significati che andava per esempio da "molto buono" a "molto cattivo". I ricercatori, che monitoravano il movimento del mouse, potevano osservare come si modificava l’interpretazione del significato. Se nella frase compariva “non buono”, inizialmente i partecipanti spostavano il cursore verso buono, per poi, in un secondo momento, cliccare in una posizione più verso il termine “cattivo”. Questo comportamento mostra come il cervello elabora prima la parte affermativa dell'aggettivo e poi modifica l'interpretazione quando si confronta con la negazione.
Il secondo esperimento è stato fatto con la tecnica della magnetoencefalografia, una tecnica di imaging cerebrale che misura i campi magnetici prodotti dall'attività elettrica neuronale nel cervello, che serve per mappare le funzioni cerebrali in tempo reale con alta risoluzione temporale.
Di nuovo il compito dei partecipanti era leggere alcune frasi che contenevano anche gli aggettivi preceduti dalla negazione. A questo punto veniva presentato un numero su una scala di intervallo tra due aggettivi scalari opposti, e il partecipante doveva rispondere se rappresentava correttamente il significato della frase.
Dopo aver raccolto tutti i dati, i ricercatori hanno scoperto che la negazione non inverte la rappresentazione neurale degli aggettivi, ma la attenua, anche se i due aggettivi di partenza sono opposti. Ad esempio, "non buono" non viene rappresentato come "cattivo" nel cervello, ma come una versione mitigata di "buono". Il cervello, quindi, modula la rappresentazione degli aggettivi negati piuttosto che invertirla completamente, un po’ come succede quando ci troviamo di fronte a una litote: se qualcuno ci dice che la nostra nuova macchina è “non bella” ci offendiamo un po’ meno che se ci dicesse che è brutta.
A livello neurale, è emerso anche che la risposta a “non buono” è più simile a “realmente buono” che a “realmente cattivo”.
Il lavoro di Zuanazzi conferma ciò che era emerso nelle ricerche precedenti a partire già dal 2008, di Tettamanti (anche questa) e Bartoli. Andrea Moro, linguista, neuroscienziato e professore ordinario alla Scuola superiore universitaria IUSS di Pavia, nonché coautore di tutti e tre gli studi, ci spiega che l’assenza di fatti negativi (il discorso per cui una negazione non può darci un’idea precisa della realtà [esempio: “il gatto non è sulla scrivania”, può voler dire che è nella cuccia, sul calorifero, oppure che non c’è proprio]) è in qualche modo bypassabile: “Quando guardiamo nel cervello – spiega Moro – possiamo trovare, per esempio, una rete che si attiva per i nomi propri, ma non troviamo direttamente una rete che si attiva con la negazione. Io però mi ero intestardito e volevo trovare nel cervello qualcosa che rivelasse la presenza di una negazione. Così siamo partiti dalle ricerche di Giacomo Rizzolatti sui neuroni a specchio. Se qualcuno vede me mentre bevo appoggiando le labbra sul bicchiere, nel suo cervello si attivano gli stessi centri che si attiverebbero se a farlo fosse proprio lui. Se però quella stessa persona mi vedesse mentre prendo il bicchiere e me lo metto sulla sommità del capo, nel suo cervello non si attiverebbe nulla. Rizzolatti ha scoperto che se invece che vedere qualcuno che beve senti il verbo che comporta un’azione si attivano gli stessi circuiti che si attiverebbero se tu compissi quell’azione. A questo punto mi sono chiesto se nel cervello ci sarebbero state differenze ascoltando frasi come Andrea calcia la palla e Andrea non calcia la palla”.
La risonanza magnetica ha rivelato che sì, una differenza c’era e questa era la prova di una traccia indiretta della negazione all’interno del cervello. “Noi – spiega Moro – abbiamo preso le stesse frasi di Rizzolatti e le abbiamo volte al negativo, notando che con la negazione c’è una parziale inibizione del circuito che coordina il movimento. Se dico Andrea non calcia la palla, è come se il messaggio che arriva a chi ascolta fosse quello che non bisogna fare nulla, e quindi i circuiti si inibiscono, sia pure parzialmente: avevamo trovato la traccia della negazione”.
La negazione linguistica comporta quindi una riduzione temporanea dell'accesso alle rappresentazioni mentali delle informazioni negate, e questa riduzione dell'attivazione dovrebbe liberare risorse cognitive per supportare compiti diversi quando vengono elaborate frasi negative rispetto a quelle affermative. Negare una frase, in altre parole, riduce l'attivazione neurale legata all’azione negata. È come se il messaggio fosse: “Ok, c’è un non, quindi stai tranquillo su questo punto e fai qualcos’altro”.
Che si tratti di aggettivi, come nel lavoro di Zuanazzi, o di azioni, come in quest’ultimo caso, tutti questi lavori dimostrano che la questione va affrontata “alla larga”, perché concentrarsi unicamente sulla parola usata per negare non si è rivelato un approccio vincente. Questi approcci combinati hanno invece permesso agli autori di ottenere una comprensione più dettagliata e quantitativa di come il cervello elabora la negazione linguistica, evidenziando l'importanza dei meccanismi di soppressione e della rappresentazione attenuata delle informazioni negate.
La ricerca va avanti, e fa passi importanti per comprendere il funzionamento dei meccanismi cerebrali, ma spesso ciò che avviene nel nostro cervello rimane un mistero e una sfida costante per gli studiosi. E magari il bello è proprio questo.