SOCIETÀ

"Tra la vita e la morte": il report di Amnesty sui centri di detenzione in Libia

Secondo le ultime cifre rilasciate dal Ministero dell’Interno, le persone sbarcate in Italia nel 2020 sono, al 28 settembre, 23.517. Moltissime, tra queste, giungono nel nostro Paese con mezzi di fortuna, affrontando viaggi lunghi e rischiosi, e spesso privi delle opportune tutele legali. Nella maggior parte dei casi, le persone che intraprendono questi “viaggi della speranza” sono giovani uomini, ma vi sono anche numerose donne e bambini.

Nel viaggio verso l’Europa, moltissimi transitano per la Libia: per alcuni è la destinazione finale, mentre per altri è solo una tappa di passaggio. I più recenti dati (aggiornati ad agosto 2020) diffusi dall’IOM (International Organization for Migration) stimano che, ad oggi, vivano in Libia circa 600.000 migranti. Il Paese, oltre a dover gestire questo alto afflusso di esseri umani, fronteggia ormai da anni una difficile situazione interna, causata dalla guerra civile che, dal 2011, ha diviso in due parti la nazione e ha generato centinaia di migliaia di sfollati interni. Dal punto di vista umanitario, le condizioni di vita di chi vive in Libia sono estremamente precarie.

Un rapporto appena pubblicato da Amnesty International, significativamente intitolato “Tra la vita e la morte”, si concentra sulle difficilissime condizioni di rifugiati e migranti che si trovano in Libia: il report evidenzia come moltissime persone siano letteralmente intrappolate nel Paese a seguito delle misure messe in atto, a partire dal 2016, da molti paesi europei per bloccare le rotte di immigrazione clandestina verso i propri porti. Il contenimento del presunto “assalto” dei migranti africani ha avuto l’effetto di condannare decine di migliaia di persone a sopportare trattamenti di detenzione disumani, come sono quelli attuati dalle autorità libiche in quelli che noi europei chiamiamo “centri di accoglienza”, ma che sono a tutti gli effetti – come d’altronde li definisce lo stesso Ministero dell’Interno di Tripoli – dei centri di detenzione, dei campi.

Amnesty ricostruisce, attraverso numerose fonti verificate – ivi comprese le testimonianze dirette di 32 rifugiati e migranti vissuti, in passato o attualmente, in Libia –, la lunga scia di illegalità e le gravi e ripetute violazioni di diritti umani fondamentali che caratterizzano la gestione dei migranti da parte del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico. Pur non avendo aderito alla Convenzione di Ginevra (1951), relativa allo statuto dei rifugiati, la Libia ha sottoscritto numerose altre convenzioni e trattati internazionali che la obbligano, formalmente, a riconoscere a chi di diritto lo status di rifugiato e a rispettare e tutelare i diritti umani. Nei centri di detenzione riservati ai migranti, tuttavia, questi impegni vengono puntualmente disattesi in un clima di opprimente impunità. Migranti e rifugiati che arrivano in territorio libico vengono infatti illegalmente incarcerati, privati della possibilità di una difesa legale, e consegnati alla custodia di forze di sicurezza (spesso agli ordini del governo). I luoghi di detenzione ufficiali riservati ai migranti sono undici sull’intero territorio nazionale, ma si stima che vi siano molti altri “campi” non ufficiali nei quali essi vengono deportati, uscendo così dalle statistiche ufficiali e, di fatto, scomparendo. In molti casi, queste sparizioni forzate sono veri e propri rapimenti, realizzati da gruppi armati o da trafficanti così da costringere le famiglie a pagare un riscatto per sperare di rivedere i propri cari. Secondo il report, «nel corso del 2020, sia la LCG (Libyan Coastal Guard) che il DCIM (Libya’s Directorate for Combating Illegal Migration) sono stati coinvolti nelle sparizioni forzate di rifugiati e migranti trasferendoli in centri di detenzione non ufficiali, comprese le cosiddette “strutture di raccolta dati e di indagine” e la “Fabbrica del Tabacco” [una ex-fabbrica dismessa e usata come centro di detenzione non ufficiale, controllata da una milizia], nonché in altri luoghi non rivelati» (p. 23).

Come è facile immaginare, le condizioni di detenzione sono «orribili»: uno degli intervistati, fuggito dal proprio paese per evitare l’arruolamento forzato e vittima, in Libia, di soprusi dal 2017, racconta in questo modo il proprio arresto: «Per quindici giorni ci hanno picchiato con bastoni di ferro, ci hanno picchiato con tubi flessibili, ci hanno picchiato con tutto quello che avevano. Ci hanno chiesto di pagare 6.000 dinari libici per ciascuno, che si trattasse di un adulto o di un bambino era indifferente». Gli arresti avvengono senza motivazione apparente anche tra i migranti che vivono stabilmente in Libia; in un’altra testimonianza riportata si legge: «Una notte, alle 3 del mattino, alcuni criminali sono entrati in casa nostra. Hanno picchiato mia moglie. Io ho reagito. Mi hanno pugnalato a una gamba e mi hanno detto: “Se ti muovi, le spariamo”. Ci hanno rapiti e portati in un hangar fuori Tripoli. Hanno chiesto un riscatto di 20.000 dollari a persona. C'erano sedici o diciassette persone nell'hangar – dalla Somalia, dall'Eritrea, dall'Etiopia. Siamo rimasti circa 15 giorni... Picchiavano la gente. Quando arrivi, ti lasciano nudo, picchiano gli uomini e violentano le donne. Dopo due settimane, ho colto l'occasione e sono scappato» (p. 24). I detenuti subiscono abusi di ogni genere: torture – pestaggi, elettroshock... –, violenze sessuali (di cui sono vittime soprattutto le donne, ma non solo), violenza razziale; inadeguata alimentazione, e spesso impossibilità di accedere ad acqua pulita; assoluta mancanza di assistenza sanitaria, aspetto che si è aggravato con la diffusione del Covid-19, a cui i migranti sono maggiormente esposti. Molti vengono sottoposti a lavori forzati, senza alcuna retribuzione né la possibilità di sottrarvisi. Molte morti che avvengono in prigionia sono dovute, oltre che alle torture e alle violenze perpetrate dalle forze armate, proprio all’inedia, alla mancanza di cure e al generale rapido deterioramento delle condizioni di salute. Molti fra gli intervistati hanno affermato di essere stati testimoni della morte di loro conoscenti o familiari durante la detenzione.

Quello redatto da Amnesty è un documento dettagliato, che non si limita a descrivere fatti, ma individua anche precise responsabilità. In quanto membri delle Nazioni Unite, gli Stati europei sono chiamati ad operare attivamente per far sì che vengano sempre rispettati i diritti universali dell’essere umano e che siano garantite a tutti le libertà fondamentali. Il report sottolinea quest’obbligo riportando le parole dell’autorevole Commento alle Convenzioni di Ginevra del Comitato Internazionale della Croce Rossa: «Questo dovere di assicurare il rispetto da parte degli altri soggetti comprende sia obbligo negativo che uno positivo. In base all'obbligo negativo, le Alte Parti contraenti non possono né incoraggiare, né favorire o aiutare le Parti in conflitto in caso di violazione delle Convenzioni. In base all'obbligo positivo, esse devono fare tutto ciò che è ragionevolmente in loro potere per prevenire e porre fine a tali violazioni» (p. 52). Le decisioni prese in anni recenti dagli Stati europei, tuttavia, non sembrano muovere in questa direzione: l’Europa – con l’Italia in prima linea – ha implementato progetti di cooperazione con la Libia per assicurarsi che i migranti soccorsi in mare venissero intercettati da autorità libiche e riportate sul suolo africano (dal quale fuggivano). Amnesty sostiene che «tale cooperazione viene perseguita nel chiaro tentativo di aggirare gli obblighi legali che vietano a qualsiasi Stato di rimpatriare le persone in qualsiasi paese in cui siano a rischio di gravi violazioni dei diritti umani, come certamente avviene per i cittadini stranieri rimpatriati in Libia» (p. 16).

La rinnovata centralità dell’intervento libico nelle acque internazionali del Mediterraneo ha avuto l’effetto sperato: dai 181.461 sbarchi in Italia e Malta del 2014 si è scesi ai soli 14.877 del 2019. A questo è corrisposto un calo delle morti in mare. L’altro lato della medaglia, però, è che «la ridotta presenza di navi da soccorso europee significa che è più probabile che i naufragi mortali non vengano registrati, per cui il numero di morti negli ultimi anni potrebbe non essere così basso come indicano le stime ufficiali. Inoltre, il ritiro delle navi da soccorso europee ha influito sulle possibilità di sopravvivenza di coloro che tentano la traversata, contribuendo a un aumento del tasso di mortalità nel 2018 e nel 2019» (p. 17).

Continuare a fornire mezzi e denaro (dal fondo EUTFA, ma anche da singole nazioni, come l’Italia a partire dal noto Memorandum del febbraio 2017, rinnovato nel 2020) alle autorità libiche, rimanendo in silenzio sulle testimonianze di atrocità che avvengono a così poca distanza dai nostri Paesi democratici – bastioni della libertà e dei diritti umani – è davvero un atteggiamento giustificabile? Secondo molti, no: ad esempio, il Consiglio Europeo ha recentemente inviato al Ministro degli Esteri italiano una lettera in cui si richiede con urgenza l’attuazione di misure per la salvaguarda dei diritti umani in Libia.

«Amnesty International continua a sostenere che, cooperando consapevolmente con la Libia in modi che portano a bloccare le persone in una situazione di estremo pericolo, gli Stati e le istituzioni dell'UE stanno agendo in violazione dei propri obblighi internazionali [...]. Il continuo sostegno dell'Italia alla Libia, in particolare, è strumentale a consentire e a istigare orribili abusi da parte delle autorità libiche contro i rifugiati e i migranti al loro ritorno in Libia [...]. Tale coinvolgimento, sebbene inquadrato e realizzato in modi che mirano chiaramente ad aggirare gli obblighi internazionali, non dovrebbe essere privo di conseguenze» (p. 20).

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