SOCIETÀ

1914: c'era anche chi non sparava

Al termine di una lunga mattinata di confusione, sottovalutazioni delle autorità e tentativi maldestri, il 28 giugno del 1914, quasi esattamente 100 anni fa, a Sarajevo il più deciso, o forse solo il più fortunato di un piccolo gruppo di attentatori serbi riuscì a sparare sull'auto dell'erede al trono austro-ungarico, Francesco Ferdinando, uccidendo sia lui che la moglie. Tempo un mese, e il mondo era in guerra.

L'entusiasmo dei primi giorni e la convinzione, diffusa in tutte le parti in campo, di un conflitto di breve durata lasciarono ben presto il campo al volto reale della guerra: l'inferno delle trincee e le carneficine inaudite per far avanzare il fronte di pochi chilometri alla volta. I soldati si trovarono così, di fronte allo stallo provocato dalla sostanziale equivalenza delle forze in campo, a cercare strategie per sopravvivere in trincee scavate nel fango, battute dall'artiglieria e dai tiratori scelti e a contatto quasi fisico - poche centinaia, se non poche decine di metri - con quelle nemiche. Strategie che implicavano la collaborazione non soltanto, come ovvio, fra individui dello stesso reparto e anche a rischio dell'incolumità personale, ma anche con gli stessi nemici. 

Soltanto apparentemente è irrazionale che un individuo sacrifichi parte dei propri interessi per aiutare un altro: per Darwin, l’evoluzione implica la sopravvivenza del più forte, ma non possiamo intendere il concetto in senso solo individuale. Spesso, la capacità di cooperare è un elemento essenziale per il successo: i deboli tendano a coalizzarsi per combattere le avversità, il branco di lupi è un predatore più forte dell'orso. Il singolo compie rinunce per far parte di una società, che in cambio aumenta le sue chances di sopravvivenza. Ma in situazioni di grande pericolo come in un conflitto mondiale, può un individuo smettere di essere egoista per tutelare l’incolumità non solo dei propri amici, ma anche dei propri nemici? Può un soldato smettere di uccidere per non essere ucciso, e può realizzarsi una cooperazione dove gli uni costituiscono, per definizione, il massimo pericolo per gli altri?

Le testimonianze della Grande Guerra ci dicono di sì. Lo attestano vicende come quella, molto nota, della "Tregua di Natale" del 1914 sul fronte Occidentale, che vide i soldati fidarsi gli uni degli altri e uscire dalla trincee per scambiarsi gli auguri, fermando i combattimenti per alcuni giorni, ma ancora di più le tante forme di "accordi", espliciti o di fatto,  che si strinsero su tutti i fronti fra i diversi schieramenti, come racconta per esempio Robert Graves in "Addio a tutto questo".

Moltissimi i casi che si possono citare. Nel pieno dell'estenuante guerra di posizione che opponeva lo schieramento anglo-francese a quello tedesco in Francia durante il primo conflitto un ufficiale inglese, secondo una testimonianza riportata dallo storico Dugdale, era rimasto sorpreso vedendo soldati tedeschi camminare tranquillamente oltre la loro linea difensiva, come per una passeggiata. ‘Non sanno quelle persone di essere in guerra?’ si era chiesto stupito. Nessun inglese aveva voluto sparare.  Tanti erano gli accordi di fatto presi sul campo: nell’estate del 1915, ad esempio, un soldato tedesco aveva portato vettovaglie nel campo nemico in cambio della promessa di riceverne quando si fosse presentata penuria di viveri per lui e per i suoi commilitoni. Molto spesso le artiglierie sparavano per dimostrare la propria potenza in funzione di deterrenza, senza arrecare danno allo schieramento opposto, cosa che avrebbe provocato una risposta altrettanto distruttiva da parte degli avversari; in un settore, le linee inglesi aprivano il fuoco a un’ora prestabilita, e i tedeschi rispondevano due ore dopo: un rituale che attestava l'intenzione di battersi con lealtà. 

Quello che era successo è che soldati di entrambi gli schieramenti, che si fronteggiavano di settore in settore in battaglioni di un migliaio di uomini per parte su fronti ininterrotti di centinaia di chilometri avevano deciso di adottare la tattica solo apparentemente irrazionale del live-and-let-live, o vivi e lascia vivere, nonostante in guerra sembri più comprensibile la logica del kill-to-not-be-killed: uccidi per non morire. Erano nate, pur fra nemici e nel pieno della guerra, tutta una serie di forme di cooperazione volte a limitare i danni e rendere controllabili i pericoli.

Come possono soldati di due eserciti opposti cooperare per aumentare le loro chances di sopravvivenza in una guerra? Il paradosso è stato studiato dal sociologo Tony Ashworth nel suo Trench Warfare 1914-18: The Live And Let Live System. in molti campi di battaglia i diversi reparti, trincerati l’uno di fronte all’altro, si studiavano a distanza e perfino dialogavano tra di loro: non dovevano attaccare a meno che non ci fosse un motivo ben preciso e dovevano sparare solo per legittima difesa ma non per offendere. In alcuni luoghi del conflitto, i soldati dei due schieramenti si conoscevano anche di persona. Se gli inglesi abbattevano cinque tedeschi, questi abbattevano cinque inglesi, ma non si procedeva a uno scontro in campo aperto. Questi accordi erano endemici non appena la situazione si stabilizzava, e costituivano l'incubo dei comandi: ordini dall’alto avevano l’obiettivo di ricordare ai soldati che "erano in Francia non per fraternizzare ma per combattere"; misure severissime venivano prese dai comandi per impedire questi accordi, ma non riuscivano mai a fermarli del tutto. 

I reparti al fronte si avvicendavano, ma i veterani spiegavano bene ai nuovi arrivati le regole concordate con gli avversari, ricorda Ashworth. E spesso i soldati di uno schieramento chiedevano agli altri se erano intenzionati ad aprire il fuoco. ‘No, se non lo volete voi”. 

Non si tratta di un fenomeno limitato al fronte occidentale; innumerevoli sono gli episodi di accordi, ritualizzazioni dello scontro, limitazioni reciproche mutuamente concordate anche sul fronte italiano. Condizione essenziale, anche qui, unità minori che si fronteggino per un periodo sufficiente ad avviare, per prove ed errori, una "conoscenza" reciproca. Come nella terribile "guerra bianca" dei ghiacciai, ad  alta quota, dove il freddo e le valanghe erano il nemico principale, e dove - racconta per esempio Luciano Viazzi in "Guerra sulle vette" riguardo al settore dell'Ortles - si arrivò presto alla rinuncia di fatto al cecchinaggio, che rischiava di provocare slavine devastanti, e si giunse fino allo scambio organizzato di caffè, che gli Italiani ricevevano dagli Inglesi, contro tabacco, di cui gli Austriaci disponevano grazie agli alleati turchi. In un caso, sorpresi dall'arrivo dei carabinieri mentre la pattuglia del tabacco austriaca riposava prima del ritorno, gli alpini fecero passare i soldati nemici per prigionieri, salvo poi permetterne la fuga: non potevano tradire la parola data! In un'occasione celebre, due giovani ufficiali nemici si sfidarono in una gara di alpinismo, senza che un solo colpo di fucile venisse sparato. Senza che tutto questo, in caso di operazioni offensive, minasse il coraggio dei soldati.

Tedeschi e inglesi, italiani e austriaci, francesi e russi mediante la tattica della cooperazione erano riusciti così a migliorare le loro possibilità di sopravvivere in un ambiente ostile. Solo tra il 1917 e il 1918 l’invio di ingenti rinforzi al fronte, dopo il crollo della Russia e l'intervento Usa, rinnovò lo spirito offensivo degli eserciti, che tornarono all'attacco mediante le tattiche elaborate nel periodo meno cruento del conflitto. Con le operazioni di nuovo sotto il controllo diretto dei comandi, la possibilità per le singole unità di cooperare per contenere l'insensatezza della guerra era sfumata.

Marco Di Caprio

Michele Ravagnolo

 

 

 

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