SOCIETÀ
Il problema dell'Italia non è l'euro

A otto anni dall'inizio della crisi, l'Italia continua a essere in grave difficoltà economica. Parte della popolazione ha da tempo attribuito all'adozione dell'euro da parte del nostro paese la responsabilità di questa crisi, o perlomeno la difficoltà a uscire dalla crisi stessa. Da un lato, i cittadini percepiscono il costo della vita come aumentato in maniera importante con l'arrivo dell'euro; da un altro, gli imprenditori si lamentano per via della valuta unica, che non permette di godere di svalutazioni competitive come quelle implementate dai nostri governi negli anni Ottanta e Novanta. Per questo, alcuni giornalisti, opinion-leader, e accademici hanno proposto soluzioni che vanno dall'abbandono dell'euro all'implementazione di una "moneta fiscale" complementare alla valuta europea.
È opportuno domandarsi seriamente se la crisi che l'Italia sta vivendo sia davvero attribuibile all'euro. A nostro parere, la risposta è molto probabilmente negativa.
Una crisi ventennale. La figura riportata qui sotto mostra l'andamento del prodotto interno lordo (PIL) a partire dal 1990 ai giorni nostri. Per avere un senso della nostra posizione relativa rispetto ad altri Paesi, tale Figura propone anche l'andamento della media del PIL di quattro economie europee (Spagna, Francia, Germania, e Regno Unito) e degli Stati Uniti.
Prodotto interno lordo. Due fatti emergono chiaramente dal grafico. Il primo è che l'Italia ha prodotto meno risorse rispetto alle altre realtà economiche qui considerate negli ultimi vent'anni. Vent'anni! Se si considera che l'Euro è stato adottato nel 1999 e introdotto tre anni dopo, il sospetto che la minor crescita delle risorse italiane non sia necessariamente dovuta alla moneta unica dovrebbe cominciare a sorgere anche in chi crede che tale adozione sia stata una mossa avventata. È bene puntualizzare che il PIL è una cruda misura del benessere di cui una nazione gode. Imperfetto fin che si vuole, misura però in maniera per quanto possibile oggettiva l’ammontare di risorse prodotte in un dato periodo di tempo da un’economia. Tale misura suggerisce che il nostro paese è in difficoltà da lungo tempo. E lo è maggiormente se si pensa al secondo fatto che emerge da questo grafico, e cioè che, a oggi, l'Italia non è ancora riuscita a tornare ad un livello di produzione di risorse pari a quello realizzato nel 2007. Le altre economie qui considerate (Stati Uniti, e l'aggregato europeo), invece, ci sono riuscite. Le conseguenze per l'Italia sono purtroppo chiare a tutti, e vanno da un livello di consumo inferiore a quello precedente (meno spese per gite fuori porta e vacanze per i più abbienti, maggior difficoltà ad accedere a beni primari come il cibo per i meno abbienti) a un'offerta di servizi pubblici ridotta (bus e treni meno frequenti, ospedali con meno infermieri per paziente).
A che cosa è dovuta questa performance piuttosto deludente del nostro Paese? È l’adozione dell’euro la causa principale? Per analizzare le cause della perdita di diverse posizioni nella classifica delle realtà economiche nel mondo, partiamo dalla considerazione che il prodotto interno lordo pro capite di un paese dipende da tre componenti: il tasso di occupazione (il numero di persone occupate relativamente al numero di tutte le persone in età lavorativa), le ore lavorate (il numero di ore lavorate da ciascuna persona occupata), la produttività lavorativa (la quantità prodotta in un’ora di lavoro). In altri termini, ciò che un paese produce dipende da quante persone sono impiegate, da quante ore ciascuna persona impiegata lavora, e da quanto ciascun lavoratore produce in un’ora di lavoro. Può quindi essere interessante esaminare questi indicatori macroeconomici chiave in un'ottica internazionale.
Tasso di occupazione. Secondo i dati dell’OCSE (Organizzazione per il Commercio e lo Sviluppo Economico), il tasso di occupazione in Italia è stato nel 2013 circa pari al 42%, numero decisamente inferiore rispetto a quello registrato dalle altre principali economie dell’area euro (Germania al 52%, Francia al 45%) e a quello degli Stati Uniti (49%). Osservando però l’andamento nel corso dei decenni passati, possiamo notare che, nonostante il tasso di occupazione in Italia sia rimasto relativamente costante nel corso del tempo, il gap con le principali economie dell’area euro e con gli Stati Uniti si sia allargato a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Il grafico successivo mostra l’esistenza di un differenziale nei tassi di occupazione persistente nel corso del tempo, in alcun modo imputabile all’adozione della moneta unica ma, piuttosto, a caratteristiche strutturali del mercato del lavoro italiano che nulla hanno a che vedere con l’Euro. La prima conclusione che possiamo trarre da questi dati è che la perdita di posizione relativa da parte dell’Italia può in parte essere ricondotta al fatto che una percentuale relativamente bassa della forza lavoro è stata effettivamente impiegata, in modo particolare della forza lavoro femminile, e che il gap in termini di tasso di occupazione è aumentato in modo persistente ben prima dell’adozione dell’euro.
Tasso di Occupazione
Ore lavorate. In Italia, ciascuna persona impiegata tende a lavorare mediamente di più relativamente a una persona impiegata in altre economie avanzate. Secondo i dati dell’OCSE, nel 2011 ogni addetto in Italia ha lavorato il 18% in più di un suo collega francese, il 26% di un suo collega tedesco, il 5% di un suo collega spagnolo e lo stesso numero di ore di un suo collega statunitense. Questo rapporto, storicamente più in alto in Italia rispetto agli altri paesi europei, è andato progressivamente aumentando almeno a partire dagli anni 70 dello scorso secolo. Pertanto, la seconda conclusione che possiamo trarre è che la perdita relativa di posizione non è in alcun modo legata al fatto che ogni occupato italiano lavori meno dei suoi colleghi europei e statunitensi.
Produttività lavorativa. Il prodotto per lavoratore indica, a parità di forza lavoro impiegata, quanto prodotto ciascun lavoratore impiegato è stato in grado di produrre. Il grafico riportato qui sotto parla chiaro: secondo i dati forniti dall’OCSE, la relativamente scarsa produttività lavorativa media delle aziende italiane rispetto a quelle di competitori che operano in Paesi che hanno, al pari dell'Italia, adottato l'Euro, ha origine ben prima dell’adozione della moneta unica. In particolare, il differenziale di produttività nei confronti di paesi come Spagna e Francia inizia ad aumentare all’inizio degli anni Ottanta. Il differenziale nei confronti della Germania inizia a crescere invece alla fine degli anni Ottanta. Ancora una volta, le difficoltà del nostro Paese, presenti da almeno trent'anni a questa parte, non sembrano immediatamente attribuibili all'adozione della moneta unica, avvenuta formalmente nel 1999 e introdotta come circolante nel 2002. Pertanto, la terza conclusione a cui siamo arrivati è che la perdita di posizioni relativa ha origine in un gap di produttività che inizia a verificarsi almeno agli inizi degli anni Ottanta.
Spese di ricerca e sviluppo per abitante nel 2008
Spesa pubblica allegra. Com'è stato possibile, nonostante tutte queste negatività, avere una crescita positiva nel tempo? Dopotutto, ci siamo accorti di essere in difficoltà "solo" qualche anno fa, mentre prima sembravano tutte rose e fiori ... beh, lo erano, ma perché c'era chi spendeva per noi: lo Stato. Qui sotto viene riportato l'andamento della spesa pubblica in rapporto rispetto al PIL. Come si può notare, l'incremento della medesima negli anni Settanta e Ottanta è stato sostanziale, e ha portato il nostro paese a cumulare debito pubblico in quantità impressionante: nel 2013, il rapporto debito su PIL è stato del 132,6%.
Spesa pubblica su PIL
Lo Stato ha dunque speso risorse in maniera crescente (ad esempio, per finanziare lavori pubblici, per trasferimenti alle imprese, e così via). Ma lo ha fatto in maniera efficiente? Alcuni servizi di inchiesta di cui ogni tanto sentiamo parlare suggeriscono una risposta negativa, visto il numero di opere pubbliche incompiute che si possono trovare nel nostro Paese. Un'analisi attenta sui ritorni alla spesa pubblica è stata effettuata di recente da un gruppo di accademici guidato da Francesco Giavazzi, esperto di politica fiscale. Il "Piano Giavazzi" contiene suggerimenti su come operare un contenimento intelligente della spesa pubblica tagliando le uscite statali infruttuose. Tale piano, datato giugno 2012, è - a nostra conoscenza - al momento ancora ampiamente disatteso.
Il ruolo delle istituzioni. Quello che la spesa pubblica non è evidentemente riuscita a fare è migliorare la qualità delle istituzioni. Il sito "Doing Business" curato dalla World Bank fornisce interessanti informazioni relativamente alla competitività del nostro Paese in funzione di un ampio ventaglio di voci di interesse per imprenditori che fanno o hanno intenzione di "fare business" in Italia nei confronti di altri paesi nel resto del mondo. Alcune voci mettono in chiara evidenza la nostra scarsa competitività. Ad esempio, la classifica che mette in fila la facilità di iniziare un business in vari paesi del mondo vede svettare Nuova Zelanda e Canada (rispettivamente, prima e seconda), e relega l'Italia al quarantaquattresimo posto, in compagnia degli Stati Uniti, ma ben dietro nazioni come Australia (settima), Irlanda (diciannovesima), Olanda (ventunesima), Norvegia (ventiduesima), Francia (ventottesima). Notoriamente, purtroppo, siamo lenti a prendere decisioni, a molti livelli. Ad esempio, il sistema giudiziario è troppo macchinoso e costoso per chi si trova nella condizione di far valutare questioni a livello legale, come le due tabelle riportate qui sotto documentano.
Crisi reale, non monetaria. In sintesi, le svalutazioni competitive, insieme alla crescita del debito pubblico, degli anni Ottanta e dei primi Novanta hanno molto probabilmente aiutato il nostro Paese a rimanere artificiosamente competitivo. Questo perché, tramite tali svalutazioni, i nostri beni sono risultati relativamente più convenienti di quelli di altri paesi, e hanno dunque trovato un mercato. Ma nel momento in cui tale “arma” ci è stata tolta con l'introduzione dell'Euro, le debolezze strutturali del nostro paese, presenti ben prima di tale introduzione, sono venute prepotentemente a galla. Tali debolezze non potevano essere mascherate in maniera permanente da svalutazioni continue, il cui unico effetto di lungo periodo è quello di far aumentare il costo della vita. La nostra è una crisi reale, non monetaria, e come tale deve essere affrontata. Incolpare l’euro della stagnazione economica attuale significherebbe non solo condannare un non colpevole. Si rischierebbe anche di non riconoscere quelli che sono stati gli effetti positivi dell’adozione della moneta unica, come per esempio la riduzione sostanziale sia del livello che della variabilità dei tassi di inflazione. Occorre dunque avere il coraggio di disegnare riforme reali atte a migliorare le istituzioni pubbliche e il mercato del lavoro al fine di tornare a crescere. Tali riforme sono costose, e comportano sacrifici che generano forti resistenze troppo spesso dettate da interessi miopi di breve periodo. Tuttavia, il nostro paese ne ha necessità: esse vanno fatte, e vanno fatte prima che sia troppo tardi.
Giovanni Caggiano
Efrem Castelnuovo