SOCIETÀ

Il Vajont e la lezione mancata

Di solito le frane non arrivano all’improvviso. Ci sono segnali che le annunciano: scricchiolii, spaccature nel suolo, alberi che si piegano in modo strano. Tutti casi in cui dare l’allarme e abbandonare la zona. A raccomandarlo è Aiuto!, un libretto di Regione Veneto e Protezione civile tornato sui banchi delle scuole elementari nei giorni del cinquantennale del Vajont. La morale della favola è semplice: ci sono catastrofi naturali che sono “prevedibili”, tanto più se la natura risponde a sollecitazioni legate alle attività dell’uomo. 

Nel corso dei lavori sul Vajont, il primo spazio per un allarme si aprì a seguito dell’onda provocata dalla frana che si schiantò nell’invaso della vicina diga di Pontesei, nel marzo 1959. Poi nel 1961 si riuscì a stimare il volume della potenziale frana dal monte Toc che sovrastava la diga, costruita in faccia a Longarone. Ma né il dubbio, né la consapevolezza di una conoscenza troppo limitata del fenomeno hanno suggerito a esperti e organi di controllo la necessità di fermarsi per impedire una delle più grandi tragedie al mondo legate alla costruzione di una diga. 

Nell’aprile del 1961 scriveva preoccupato il progettista Carlo Semenza al suo collega Vincenzo Ferniani: “Non le nascondo che il problema di queste frane mi sta preoccupando da mesi: le cose sono probabilmente più grandi di noi e non ci sono provvedimenti pratici adeguati, a meno di far cadere buona parte del materiale addirittura, con grandi mine, come proporrebbe l’ingegner Sensidoni; ma è il caso di arrivare a tanto? Dopo tanti anni di lavori fortunati e tante costruzioni, anche imponenti, mi trovo veramente di fronte a una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani”. 

A cinquant’anni di distanza, è ancora forte il peso di quell’eredità. Fatta soprattutto di silenzi: nei corridoi del potere come nelle aule universitarie. Certo il caso Vajont è stato oggetto di centinaia di studi scientifici, in Italia come all’estero. Tuttavia mentre numerosi studiosi stranieri hanno ricevuto fondi dai loro governi, “Nessuna ricerca sul Vajont è mai stata finanziata direttamente dal ministero dell’Università e della ricerca italiana”, afferma Monica Ghirotti, geologa e allieva di Edoardo Semenza. E non è difficile stupirsene se lo stesso Semenza, che ha scoperto per primo la frana (era anche il figlio del progettista della diga), ha sempre respinto anche la sola idea di un errore commesso dai protagonisti della vicenda. 

“Mi sono laureato a Padova negli anni Novanta – racconta un geologo – e mi ricordo l’avvertimento che circolava tra gli studenti: non toccare il Vajont”. Ivan, che è originario di Longarone e ha studiato a Trento, spiega che quando ha proposto una tesi sul modello idraulico della diga la risposta è stata secca: “Un processo c’è già stato e si è concluso con un’assoluzione.” Ancora oggi l’enciclopedia Treccani sembra accreditare la tesi della fatalità, se alla voce ‘Vajont’ si limita a registrare che il 9 ottobre 1963 una frana “si staccò improvvisamente” dalla montagna.

Di tutt’altro avviso Cristina Stefani, direttrice del dipartimento di geoscienze di Padova, che apre la recente conferenza scientifica Vajont 2013 parlando apertamente di errore. “Un errore che noi – geologi, ingegneri e politici – ci portiamo sulle spalle. Siamo chiamati in causa e chiarire i vari aspetti della verità è la sola lezione che possa servire per il futuro”. Magari utile a rimediare alla stessa incomunicabilità tra gli addetti ai lavori, uno dei fattori ritenuti determinanti per la tragedia e rimasto un limite anche di molte delle pubblicazioni scientifiche che la seguirono. A rileggere la storia del Vajont spiccano quasi sempre due ruoli – geologi e ingegneri – che fanno fatica a parlarsi, a capirsi e a collaborare nella messa a punto di una valutazione tecnica complessiva, spiega il geologo Paolo Paronuzzi. “Una situazione che – afferma – è ancora di notevole attualità per molte situazioni che riguardano le grandi opere come i progetti più tradizionali”. 

A proporre un approccio radicalmente diverso sono, nel 1985, Alfred Hendron e Franklin Patton, che studiano il Vajont per conto del Genio militare statunitense e spiegano così la prassi americana nella loro relazione conclusiva: “Adesso ingegneri e geologi sono generalmente obbligati a esaminare i versanti. Dove sono stati identificati fenomeni franosi, si deve spiegarne l’impatto sul progetto. Se le frane sono grandi e i loro effetti possono essere importanti, vi è l’obbligo di spiegare perché questi versanti sono diversi e più sicuri di quelli del Vajont”. 

La diga a lungo dimenticata si trasforma in tal modo nel metro di paragone che permette di mettere in sicurezza la frana di Downie, cinque volte più grande del Vajont. Viene stabilizzata con più di due chilometri di gallerie di drenaggio e si trova all’interno di un bacino che funziona da una trentina d’anni. Forse è per questo che Patton, intervenuto ai lavori della recente conferenza scientifica padovana, si è meravigliato dell’inutilizzo del bacino del Vajont, oggi che la frana è, per così dire, “in sicurezza”. 

Lo stupore non sembra però tener conto né delle vittime, né della (poca) strada fatta dall’Italia per dotarsi di una normativa rigorosa sulla costruzione di nuovi serbatoi o sulla vigilanza di quelli esistenti. Illuminante in proposito  la pagina 80 di un documento dell’Enel del 2009: “Oggi il rischio di frane e smottamenti all’interno di laghi artificiali viene notevolmente ridotto da un’azione preventiva di controllo prevista anche dall’articolo 17 del Regolamento approvato con Dpr 1363/1959.” In breve, l’impianto fondamentale delle norme sulle dighe è rimasto quello nato quattro anni prima del Vajont. Del resto, spiega l’ingegner Carlo Ricciardi membro del consiglio superiore dei lavori pubblici, “La previsione di un organismo di controllo indipendente dal gestore in quegli anni esisteva già: sia in fase di progettazione che nella successiva esecuzione dei lavori, nel momento di invaso e in quelli di esercizio”. 

Ricorda però il geologo Rinaldo Genevois che se da un lato ci fu la scommessa fatta dai progettisti di controllare la frana, dall’altro vi furono grandi pressioni e responsabilità “non dimenticabili” per arrivare alla consegna della diga in tempi brevi. “In fondo – conclude amaro – niente è così forte che non possa essere conquistato dal denaro.” In questo caso non ha funzionato neppure l’antico antidoto dell’uomo di scienza di fronte alla presunzione: “Una sola cosa so, che non so nulla”. (1/continua)

Carlo Calore

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012