SOCIETÀ
La vittima, eroe del nostro tempo

Pittore caravaggesco francese (cerchia di Nicolas Régnier), San Sebastiano trafitto dalle frecce
Lo spettro che si aggira per il mondo contemporaneo è lo spettro della vittima. Non l’oppresso, non l’offeso, non il diseredato, cioè la vittima reale, ma la vittima presunta. Quest’ultima non chiede giustizia ma risarcimento; non invoca la risoluzione, fin dove è possibile, dell’offesa, ma vuole sempre che si riconfermi il suo status di vittima. La vittima presunta usurpa il posto della vittima reale.
Sentirsi vittima, fare la vittima, paga e in Critica della vittima Daniele Giglioli (Nottetempo, 2014), docente di letterature comparate a Bergamo, prova a indagare questa figura complessa e la macchina mitologica che la produce e la giustifica. La vittima è una figura della storia e quella presunta ne è la sua effrazione.
Presentarsi come vittima rende, è una strategia di legittimazione di sé, di fronte alla vittima presunta non c’è ragione che tenga, tutto gli è dovuto. Se alle vittime reali bisogna dare voce, quelle, per esempio, delle guerre globali o dell’ineguaglianza economica, la vittima presunta di voce ne ha già a sufficienza. Questo è il paradosso che Giglioli intende illuminare.
L’imprenditore ricchissimo e poi politico, e poi condannato per evasione fiscale, che fa del suo essere vittima della magistratura un attributo del suo carisma; il giornalista, Giampaolo Pansa, che nei suoi libri parte da un'antiretorica della Resistenza e finisce per presentare i fascisti come vittime della barbarie partigiana, eguagliando così tutte le ragioni e le verità in conflitto; gli “alti lai” dei conservatori americani che si sentono vittime della politica “nazista” di Obama, che si paragonano agli ebrei sotto Hitler, ma che certo sono lontanissimi dall’orgoglio wasp di un conservatore come il grande James Ellroy.
In questo caso si può rilevare l’uso sconcio di associazioni come Obama-Hitler e Repubblicani-ebrei, usate opportunisticamente come arma politica e ricerca del consenso.
Ma si noti anche come l’uso dei termini “genocidio” o “Auschwitz”, impiegati come parametro e misura, sia ormai senza controllo: “Lo sterminio nazista degli ebrei è diventato il principale paradigma etico-politico contemporaneo, fonte di innumerevoli confronti, paragoni, moniti, evocazioni a proposito e sproposito”. Quando ne va del suo primato e della sua affermazione la vittima presunta gioca forte e Giglioli ne ripercorre una vasta fenomenologia che va dalla filosofia alla psicologia, dalla sociologia alla letteratura.
L’enfasi data, in certa filosofia del Novecento, alla vulnerabilità e tragicità del soggetto (per esempio Lèvinas, Heidegger) – ma quanto più necessaria, invece, appare la tragica e virile infermità della filosofia leopardiana –, è vista dall’autore come il correlato teorico nella sua ricostruzione della genealogia della vittima.
Partendo da una costellazione concettuale che va da Kant a Foucault, passando per Adorno, il metodo critico di Giglioli analizza, scompone e discerne, ma è anche critica che giudica e contesta, che svela e mette in questione la presunta assolutezza e innocenza del mito contemporaneo della vittima.
La vittima presunta assume i caratteri di quella reale: debolezza, passività, incolpevolezza. Il potente guadagna presentandosi come agnello.
Così, il mercato capitalista che si sente vittima dei freni e dei limiti che vorrebbe imporgli la politica; i reduci del Vietnam diventati vittime ossessionate dalla giovinezza perduta nelle foreste di Quang Nang (che intanto bruciavano sotto tonnellate di napalm); il caso di Antonio Moresco, che gioca parte della sua fama di scrittore sulla sua iniziale e traumatica esclusione o marginalizzazione dai grandi editori.
Il paradosso è che si assume una condizione di minorità, afferma Giglioli, per aver potere e visibilità; la vittima usa come strumento la debolezza per imporsi: “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio […] La posizione di vittima conferisce una singolare forma di potere”.
In questo libro Giglioli mostra come la mistificazione della condizione di vittima non sia che una modalità di dissimulazione del potere (le sue manifestazioni pressoché infinite) attraverso l’uso strumentale della debolezza.
È per questo che compito della critica è sciogliere, scomporre e svelarne il meccanismo di emissione o di “avvio” come scrive l’autore; si tratta di vedere, allora, come sia avvenuta “la trasformazione dell’immaginario della vittima in instrumentum regni”, che fa confondere le vittime reali con quelle presunte, per cui il cantante rock morto per droga (un povero miliardario strafatto in ultima analisi) diventa martire e icona e non si distingue più da chi, vittima reale e senza nome, fugge da guerre e staziona per anni in campi profughi o muore attraversando il Mediterraneo.
Non c’è limite all’uso del “paradigma vittimario", come lo definisce Giglioli, e il libro in fondo ci invita all’esercizio della distinzione (che è uno dei compiti dell’etica) tra chi è vittima (e di chi è vittima) e chi non lo è.
Potremmo aggiungere, in chiusura, che alla mitologia vittimaria discussa da Giglioli manca un protagonista: chi non ricorda Calimero, il cartone animato nato negli anni Sessanta? Il pulcino nero, la vittima tout court, aveva un suo suo mantra preferito: “Eh, che maniere! Qui ce l’hanno tutti con me perché io sono piccolo e nero… è un’ingiustizia, però”.
Ma certo la questione indicata da Giglioli è molto seria.
Sebastiano Leotta