SOCIETÀ

Trovare parole precise, conversazione con Gianrico Carofiglio

Giovanni Enrico Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) è oggi probabilmente il più bravo scrittore italiano, certo quello di maggior meritato successo. Con lui a metà dicembre abbiamo distesamente conversato delle imperfezioni e della precisione del linguaggio, scritto e orale, fra una presentazione e l’altra del suo ultimo romanzo, “La misura del tempo” (Einaudi, 2019). Leopardi soleva distinguere i termini dalle parole. I primi indicherebbero in modo preciso un oggetto, perlopiù in modo chiaro e inequivocabile, mentre le seconde convoglierebbero attorno all'oggetto un insieme vago di senso, idee accessorie. Per questa ragione, i termini sarebbero più adatti alla scrittura tecnico-scientifica, mentre le parole sarebbero più adatte alla poesia, soprattutto quelle desuete o che rientrano nella sfera del vago, della dolce indeterminatezza, che significano infinità. Vi sono vari passaggi dello Zibaldone che ne trattano, accanto alle riflessioni sul linguaggio, sulle metafore, sulle lingue.

Tu hai scritto vari libri sull’uso delle parole nel diritto, nella politica e nell’informazione contemporanei, uno intitolato proprio a “Le parole precise” (Laterza. Bari 2015). Partiamo da qui?

È certo utile quella distinzione leopardiana, soprattutto per le coerenze interne alle singole discipline scientifiche. La precisione nell’uso delle parole e dei termini è comunque anche l’esito di un processo creativo dello scrittore, del saggista come del poeta. E Leopardi ne fece mirabile uso. Occorre raccontare quel preciso fenomeno e quella precisa emozione, nel contesto di una specifica forma narrativa e di un determinato contesto letterario o editoriale. Due parole precise messe una accanto all’altra possono dire una cosa vaga. L’aggettivo ha almeno due accezioni: indica a esempio che il sinonimo di un vocabolo può attentare alla precisione della connotazione e che è solo dopo che verifichiamo l’efficacia della ricerca di senso connessa alle parole usate. Cito spesso Primo Levi: “Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno”.

 

Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno Primo Levi

E qui interviene allora la distinzione fra scrittura poetica e scrittura tecnico-scientifica, potremmo dire fra fiction e non-fiction?

Nella fiction la parola trafigge il cuore di chi scrive e di chi legge. Il passaggio dal pensiero di un’emozione alla sua “trascrizione” non è sempre immediato e scontato. È spesso solo dopo tentativi, riletture e riscritture che verifichi la resa (a posteriori), dopo aver cancellato o sostituito le parole sciatte, banali, noiose. Non in assoluto, ovviamente, ma per la comprensione di quella “precisa” emozione che dà senso alla storia che hai scelto di narrare. Nella non-fiction le parole hanno poi una categorizzazione maggiore, esiste il vincolo degli statuti disciplinari o delle definizioni e teorie connesse alla disciplina della materia trattata. L’imprecisione riguarda concetti, opinioni e trattazioni più che le singole frasi, ferisce la comprensione di un argomento, non solo il cuore dello scrittore e del lettore. Le parole sono decisive per poesie e romanzi, l’imprecisione può spesso essere deliberata e geniale, evocare ed emozionare sono compiti primari, nel caso del genere etichettato come poliziesco appare obbligatorio occultare seppur onestamente. Comunque anche queste scritture devono avere una loro coerenza narrativa, produrre un (qualche) senso.

Quindi non ti fermi alla prima stesura?

Mai. Tendo a rileggere e riformulare anche i messaggi Whatsapp. le mail, i tweet (dove esiste pure il disciplinato vincolo della lunghezza). Per i saggi la riscrittura è programmatica, formalizzata, un elemento della civiltà della comunicazione umana. E della democrazia. La democrazia vive di parole precise, un linguaggio condiviso è il primario contratto sociale. Nel territorio dei doveri e dei diritti collettivi le parole possono manipolare chi le subisce. Sapere (e non saper) manipolare forma e linguaggio può implicare manipolare pensiero e contenuto, consenso e democrazia. Ci vogliono assoluto rispetto e attenzione per gli altri, in particolare per la metafora, forma del pensiero e figura retorica, ben più potente (ed enigmatica) della similitudine. Le metafore devono aiutare a capire, non affermare supremazie. Maggiore chiarezza e precisione delle parole significano più democrazia. Minore chiarezza e maggiore oscurità implicano meno democrazia.

Ben presto la tua riflessione scritta sulle parole precise si è indirizzata e concentrata sulle lingue e sulle professioni del potere: giuristi, politici, legislatori e amministratori, un mondo dove hai denunciato la frequente “manomissione delle parole”.

Dovremmo imparare tutti ad ascoltare e leggere meglio. Per capirci: quando partecipiamo a una riunione è chi convoca che deve garantire esiti non predeterminati e chi introduce che determina la qualità della discussione. Farsi capire è un dovere e capire è un diritto. Doveri e diritti richiedono impegno, fatica, tempo. Facciamo caso alle parole superflue, all’abuso di avverbi, ai sostantivi astratti, ai verbi generici, alla forma passiva che sterilizza, al latino e all’inglese inutile, agli pseudotecnicismi, all’eccessiva lunghezza delle frasi, all’ordine nella cura della sintassi, soprattutto a chi ci rivolgiamo, e con quale obiettivo. Scrivere vuol dire anche cancellare e riscrivere, rendere la propria comunicazione precisa ed essenziale, chiara e corretta. Sono principi opportuni anche quando di leggono o ascoltano “intercettazioni”.

Farsi capire è un dovere e capire è un diritto

Purtroppo non si sa bene chi deve può vuole insegnare a leggere e scrivere bene (con lealtà) nella scuola e nelle istituzioni, sapendo qualcosa di neuroscienze. E ancora non si è riflettuto abbastanza sui meccanismi oggettivi (nel giornalismo e in politica) che ostacolano chiarezza e lealtà, quanto sia preferibile per alcuni protagonisti scrivere male (per vendere copie o conquistare voti, per esercitare il proprio potere), con un’ambigua slealtà che non si paga.

La mia riflessione sulla precisione nell’uso delle parole nacque anche dalla professione che scelsi, il magistrato. Scrissi saggi scientifici sull’interrogatorio negli anni novanta che poi ho in parte rielaborato in alcuni testi dell’ultimo decennio. Il nuovo codice di procedura penale è entrato in vigore nel 1989 e nei processi, da allora, ha assunto un notevole maggior ruolo il controesame dei testi da parte dell’accusa (se chiamati dalla difesa) o della difesa (viceversa), con nuove potenzialità e nuovi rischi. La cross-examination da tempo immemorabile gioca varie funzioni in altri sistemi giudiziari, in particolare quello americano, molto studiato sia dagli specialisti che dalla letteratura gialla e nera. Ci si può porre tre diversi tipi di obiettivi: limitare i danni, attaccare l’attendibilità del teste, distruggere il contenuto della testimonianza. Per scegliere quello giusto bisogna studiare con profondità e professionalità il teste da interrogare e gli effetti sia probatori che psicologici che si vogliono conseguire. La questione “fatale” è quella delle domande formulate nel corso dell’interrogatorio. Nell’esperienza pratica nei tribunali italiani ho verificato strategie e fallacie, metodi ed errori. Nel 1998 scrissi per un editore giuridico un saggio rivolto a un pubblico tecnico, ricostruendo criticamente quindici concreti verbali processuali, ricca bibliografia non-fiction (ma anche fiction), qualche spunto narrativo. È stato ripubblicato dieci anni dopo in una nuova edizione con alcune rielaborazioni e senza dettagli tecnici, un significativo successo di pubblico non specialistico. Il dubbio è un’arte, ha una funzione sia sociale che letteraria, risulta sempre “ragionevole”.

Del 1998 era “La testimonianza dell'ufficiale e dell'agente di polizia giudiziaria”, Giuffré, Milano (seconda edizione 2005 con Alessandra Susca), l’altro manuale sul controesame è del 1997 (ancora Giuffrè), poi nel 2008 è uscito “L’arte del dubbio”, Sellerio, Palermo. Successivamente hai pubblicato gli altri libri sulle parole cui qui facciamo riferimento, dove vengono citati grandi scrittori, filosofi, linguisti, giornalisti: “La manomissione delle parole”, RizzoliMilano 2010, “Con parole precise. Breviario di scrittura civile”,  Laterza Bari 2015. Entrambi hanno già avuto un incredibile diffusione di copie, quasi trecento mila ciascuno. In un certo senso quello a cui sei più legato è però l’ultimo, quello sul campo, “Con i piedi nel fango. Conversazioni su politica e verità, (con Jacopo Rosatelli), Edizioni Gruppo AbeleTorino 2018.

Proprio così, perché contiene una riflessione sull’agire pratico in politica, dopo e accanto alle parole. Non a caso parto da Gramsci, dall’invettiva lanciata circa un secolo fa dalle pagine del periodico socialista “La città futura” (era il febbraio 1917, l’Italia era in guerra), contestando sia chi rifiuta ogni impegno (allora come ora) sia chi pratica con attivismo vuoto e nevrotico solo il rancore (oggi patologicamente). Non si tratta di un saggio organico o di un trattato sistematico, piuttosto di un breviario volitivo con al centro la comunicazione politica, più o meno fattiva e chiara, articolato in quattro parti: indifferenza e rancore; menzogna e manipolazione; verità, sostantivo plurale; le parole e le storie. Il titolo deriva da un noto aforisma di Orwell (connesso pure alla frase di don Mazzolari e don Milani) sulla distinzione fra politici utopisti e politici realisti e sul camminare nel fango (o sullo sporcarsi le mani) per raggiungere l’obiettivo enunciato.

Sostieni che chi “guarda il mondo da sinistra”, non può che arricchirsi di tanti altri punti di vista. Ti dici convinto “che la storia si muova verso il progresso e che rispetto a questo progresso l’azione consapevole degli individui e delle collettività sia fondamentale, e dunque doverosa”. Critichi, perciò, chi si astiene (anche dal voto) e chi aborrisce il compromesso (“pratica sana e… imprescindibile”). E fai ancora una volta ruotare tutto intorno al preciso plurale concetto di verità, pure rispetto agli errori che inevitabilmente si fanno (richiamando implicitamente il pensiero ironico e il principio isomorfico).

Tento di riprendere quattro rigorosi precetti toltechi, per poi poter vivere la politica con la giusta dose di distacco e anche di allegria; in sostanza, essere seri ma non prendersi sul serio e combattere di continuo l’ipertrofia dell’ego per cui ci si immedesima con la funzione, la carica, il ruolo. Molto spazio dedico alle notizie false (sempre esistite), ma anche al troppo “latinorum”, alla relazione fra il dire e il fare, alla distinzione fra privilegi ingiusti e legittime prerogative, al principio di responsabilità, all’ecologia del dialogo gentile, sempre con uso accorto e meditato delle parole, perché la verità è plurale. Nel lessico necessario inserisco, simbolicamente, giustizia ribellione bellezza scelta speranza, e insisto molto sul declinare i propri (radicali) valori con storie ed emozioni, capaci di parlare a tutti i sensi e a quante più possibili motivazioni di individui e collettivi. Ecco, quel testo si presta a una lettura vogliosa di andare fino in fondo e di cominciare a fare qualcosa di conseguenza. Contiene spunti per un’attività politica democratica.

Negli ultimi anni ti capita sempre più spesso e con sempre maggiore apprezzamento di non essere letto solo tramite la carta, di essere ascoltato in televisione, in diretta, dal vero vivo. In quel diverso contesto come hai adattato la regola democratica della precisione?

Non mi preparo molto e, in linea di massima, non cerco nemmeno di sapere prima gli argomenti trattati. La questione è allenarsi costantemente a una comunicazione precisa. Non c’è nulla che richieda una maggiore programmazione che l’improvvisazione, l’ho appreso dalla decennale pratica delle arti marziali e vale per ogni contatto umano. Non puoi sapere prima la sequenza dei colpi di un combattimento (o di una partita, in altri sport), devi costruire un corpo così allenato da saper “reagire” in modo appropriato, schivare se è l’unica cosa che puoi fare, o subire il meno possibile oppure anche attaccare quando l’attimo lo consente. Cerco sempre di seguire l’attualità, di documentarmi, di studiare, comunque se una cosa non la sai è meglio non far finta. Se in televisione mi pongono una domanda su argomenti di cui non ho assoluta o dignitosa competenza, lo dico subito. Inutile arrampicarsi sugli specchi. Consiglio sempre a tutti e ovunque di dire la verità e cerco di dire la verità prima della mia possibile imprecisione. Eticamente e strategicamente così non rischi di sfracellarti. Poi, se ascolto un’imprecisione altrui, la segnalo in modo altrettanto chiaro e preciso, senza atteggiamenti di aggressività o presunzione. Dire la propria verità non significa avere ragione per tutti e comporta accettare gli altrui sforzi di aggiungere argomenti al confronto. Sotto questo punto di vista l’esperienza parlamentare non ha aggiunto molto alla dura concreta pratica dei processi con tanti diversi avvocati. So bene che la democrazia ha molteplici differenti accezioni, che considerarla un valore sociale non riguarda tutti e che non tutto può risolversi con il “diritto mite”. Continuo comunque a tenere molti seminari sulle tecniche del dialogo (prima ancora che della scrittura), l’allenamento a non manipolare gli altri è il punto principale, almeno dal mio di punto di vista che contiene una dimensione etica democratica.

L’allenamento a non manipolare gli altri è il punto principale che contiene una dimensione etica democratica

La precisione ha anche un aspetto matematico?

In parte sì ed è un nuovo campo di studi che sto facendo. Si tratta di un antico interesse di cui mi privai quando iniziai il quarto ginnasio. Facevo il classico, basta con i numeri! Poi mi sono sempre più interessato alle neuroscienze e alle mnemotecniche, ai meccanismi anche biologici della decisione politica più o meno democratica, ora alle tecniche del calcolo mentale veloce e della matematica. Ovviamente approfondisco e rifletto mantenendomi sempre al confine con le discipline retoriche per le quali auspico parole precise a prescindere dai termini tecnici. All’inizio del 2020 a Bari, nella seconda sessione di corsi interni alla Facoltà di Diritto, terrò proprio alcune lezioni sulle abilità retoriche, sulle tecniche di esposizione orale e, ancora, sul come domandare ad altri qualcosa che interessa. Hai altre domande?

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