UNIVERSITÀ E SCUOLA

Il futuro della scuola non è il suo passato

Qualcuno l’ha già definita la didattica del predellino. Ieri, martedì 5 giugno, con un editoriale in prima pagina e dunque in bella evidenza sul Corriere della Sera, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha proposto dieci piccole riforme per restituire alla scuola italiana il ruolo e anche il prestigio perduti. La prima riforma riguarda, appunto, il predellino – o meglio, la predella –, in modo che l’insegnante possa fisicamente stare più in alto degli studenti. La proposta ha un volere simbolico, dice Galli della Loggia, perché ciò che conta è restituire agli insegnanti l’autorità perduta.

Nell’insieme, le dieci proposte a costo zero di Ernesto Galli della Loggia prefigurano un ritorno al passato. Al bel tempo che fu: quando la scuola italiana aveva ben altra autorevolezza, ruolo e prestigio. Oggi risponde, sempre sul Corriere della Sera, il fisico Carlo Rovelli. Sostenendo che i docenti, lungi dal salire sulla predella, devono coltivare sempre più il dialogo con gli studenti. E che il problema della scuola si risolve restituendo dignità ai docenti. Dignità anche economica, diciamo noi.

Nell’insieme, le dieci proposte a costo zero di Ernesto Galli della Loggia prefigurano un ritorno al passato.

Noi siamo molto più vicini alle posizioni di Rovelli che non di Galli della Loggia: non è un improbabile ritorno al passato che restituirà alla scuola italiana ruolo e prestigio. Al contrario bisogna analizzare il nuovo contesto sociale e culturale in cui opera la scuola e immaginare una pedagogia in grado di rappresentare i nuovi bisogni e trarre frutto dalle nuove possibilità tecnologiche.

E tuttavia serve uno scatto in più, anche rispetto a quello che dice Rovelli. Viviamo in un’era completamente nuova. E, dopo migliaia di anni, abbiamo bisogno di un modo completamente nuovo di trasmettere la conoscenza.

Quale sia l’era completamente nuova, è presto detto. È l’era digitale. L’informazione corre per mille canali: scritti, audio, visivi. Ma, soprattutto, tutti siamo connessi con tutti. Il mondo si è ridotto (per buona parte, ma non per intero: non dimentichiamo il digital divide) a un unico, enorme villaggio globale.

 La novità penetra anche nelle scuole. E non (solo) perché i ragazzi entrano in classe con il loro cellulare, regolarmente acceso. Ma anche e soprattutto perché portano con sé una cultura diversa. Sono multitasking, pensano per rapide connessioni, forse mancano di una vista lunga, profonda: ma hanno una potente vista laterale, che si estende a 360 gradi. Il loro pensiero non si organizza solo nella scrittura, ma nella interpenetrazione di parole stampate, di suoni, di immagini. Sono, lo vogliamo o no (ma io dico, per loro fortuna), nativi digitali.

Come si trasferisce la conoscenza ai nativi digitali, quale, dunque, debba essere la nuova didattica nessun lo sa

Come si trasferisce la conoscenza ai nativi digitali, quale, dunque, debba essere la nuova didattica nessun lo sa. Ma è da tempo che le grandi scuole di pedagogia si pongono questo problema. E molte sono giunte a una proposta, provvisoria. Che non è – gentile professor Galli Della Loggia – quella di tornare alla scuola del passato e al maestro con la bacchetta. Che non è quella di separare la scuola dalla società.

E non è neppure solo quella di una scuola impostata sul dialogo tra docenti e discenti e sulla restituzione di una dignità sia ai primi e che ai secondi, come giustamente propone Carlo Rovelli.

Occorre, appunto, qualcosa di più. Anzi, molto ma molto di più. Occorre inventare un modo di trasferire la conoscenza completamente nuovo. Si tratta, appunto, di cambiare un modo di insegnare antico, vecchio – a ben vedere – di almeno tre millenni. Un metodo lineare fondato, direbbe un teorico dell’informazione, su due trasmittenti, un mezzo, due canali, e un ricevente.

Le due antiche trasmettenti sono il maestro e il libro. La conoscenza è tutta lì: nelle pagine di un libro e nel cervello di un parlante, il docente.

 Il mezzo è uno solo: la parola.

 I canali sono due: la parola trasmessa per via orale (dal maestro) e la parola stampata (sulle pagine del libro). E, infatti, non a caso nei prossimi giorni i nostri studenti dell’ultimo anno delle superiori sosterranno gli esami di maturità che si distinguono in due diversi tipi di prove, quelle scritte e quelle orali.

 Quanto all’unico ricevente della vecchia scuola è fin troppo chiaro chi sia: lo studente. Sia esso delle elementari, delle medie inferiori o delle medie superiori. La trasmissione della conoscenza ha una sola direzione: da chi sa a chi non sa. Una direzione che gli inglesi definiscono, in maniera molto efficace, top-down: dall’alto verso il basso. Dove l’alto sono le vette del maestro e del libro. E il basso è l’oceano dell’ignoranza da riempire con le acque limpide della conoscenza: lo studente.

 Il termine (studente) e la declinazione (singolare) non sono scelti a caso. Perché la trasmissione del sapere a scuola da qualche secolo (per certi versi, da qualche millennio) non è personalizzata (tranne per pochi fortunati che in epoche passate potevano permettersi un tutor a domicilio), ma è sostanzialmente uguale per tutti, come se tanti ragazzi con intelligenze, interessi, creatività, bisogni, speranze diversi fossero uno e un solo ragazzo. Lo studente, appunto.

 Intendiamoci, questo tipo di scuola ha funzionato bene. D’altra parte non sarebbe durata tanto se, predella o meno, non avesse avuto una base solida. E solide giustificazioni. Ma tutto questo ora non funziona più. È cambiato l’ambiente cognitivo. Sono cambiati, di conseguenza, i ragazzi. Sono cambiate sia le cose da apprendere che le modalità di apprendimento.

Deve, di conseguenza, cambiare l’insegnamento. La scuola deve essere, letteralmente, ri-creata

E non solo in Italia. Anzi, neppure tanto in Italia. Perché, contrariamente a quanto si dice la nostra scuola – soprattutto a livello dei licei; meno a livello di professionale – funziona bene. Quanto quella di altri paesi, almeno. Se non di più.

Ciò ribadito, resta la domanda: come ricreare la scuola nell’era dei nativi digitali? Lo ribadiamo: nessuno ha una risposta definitiva a una simile domanda. Work is in progress: si va avanti, per prova ed errore. Seguendo due percorsi ormai già ben delineati.

 Si tratta, a ben vedere di tre grandi strade che ridefiniscono il problema del rapporto tra scuola e società, tra modernità e democrazia, quattro secoli dopo che il moravo Jan Amos Komenskẏ, più conosciuto come Comenio, ha indicato nella scuola di massa e nell’educazione per tutti la nuova frontiera della modernità e la pasta stessa della democrazia, perché è attraverso la scuola che tutte le persone possono migliorare la propria condizione intellettuale e sociale.

 Una indicazione, quella di Comenio, che oggi è più che mai attuale, visto che la produzione incessante di nuova conoscenza è diventato il primum movens, il motore primo, della dinamica sociale e dell’economia. Tanto che molti definiscono la nostra come la “società della conoscenza”. E da identificare nella formazione uno dei suoi pilastri: mai un numero così alto di persone nel mondo ha avuto 15/20 anni di studio alle spalle; mai un così alto numero di giovani (oltre il 40% in area Ocse) ha avuto una laurea; mai un così alto numero di persone ha continuato ad apprendere per tutta la vita (long life learning) come oggi.

 Ebbene, nella sua opera di ri-creazione la scuola deve accettare e vincere due sfide. Diverse e in apparenza persino antitetiche. Una è la sfida della quantità. Ovvero, dell’accesso alla conoscenza considerata come un diritto inalienabile dell’umanità. Occorre pertanto fare in modo che molti, tendenzialmente tutti devono aver accesso alla formazione. Molti, tendenzialmente tutti, devono potersi formare attraverso 15/20 anni di studi e, poi, con un indeterminato long life learning.

 L’Europa si è posta come obiettivo quello di dare una laurea ad almeno il 40% dei suoi giovani. Ma alcuni paesi in giro per il mondo sfiorano il 60%. Uno, la Corea del Sud, supera il 70%. In Italia la percentuale, intorno al 24%, è la più bassa tra i 40 paesi dell’Ocse tra i 27 dell’Unione europea. Stiamo accettando troppo passivamente, nel nostro paese, che i nostri figli siano tra i poveri, dal punto di vista cognitivo, del mondo.

 La seconda sfida è quella della qualità. Dalla via personale alla formazione. Occorre “una scuola per ciascuno”. Dobbiamo abbandonare l’idea che si possa trasmettere, con il classico approccio top-down, dall’alto di una predella, un sapere uguale per tutti. Occorre invece acquisire l’idea che ciascuno studente – o, per dirla con il sociologo francese Alain Touraine, ogni “soggetto individuale” – compartecipi con spirito critico alla sua stessa formazione, secondo un percorso personalizzato che si modella sull’intelligenza, l’interesse, la creatività, i bisogni, le speranze, la storia di ciascuno.

 La scuola deve essere in grado di dare a tutti un’opportunità e di dare a ciascuno secondo le sue capacità e aspettative, trovando la strada giusta per allenare lo scrittore e/o il matematico, il pittore e/o il fisico, il filosofo e/o il chimico, il fotografo e/o il biologo, l’attore e il regista e/o il medico, il musicista e/o il neuroscienziato che è un ragazzo.   

Accettare e vincere le due sfide per la scuola significa ri-creare se stessa e proporsi come “scuola del soggetto”, in grado di perseguire l’uguaglianza nella diversità

Ciò costituisce un inedito cambio di paradigma. Perché significa che, nell’era dei nativi digitali e della conoscenza che si trasferisce mediante reti con un’infinità di nodi, la scuola non deve cercare solo di trasmettere la conoscenza, di cui non ha più il monopolio, ma deve insegnare a ciascuno come si apprende: cioè come si acquisisce e come si produce conoscenza. Non è né facile né scontato.

 Non lo è per gli studenti, perché richiede (impone) loro di diventare attori del proprio destino culturale. Ma non è neppure impossibile. Perché la sfida richiede di apprendere ri-creandosi, in una dimensione, dunque, che è prima di tutto piacere. I nativi digitali non possono accettare più l’autoritarismo del maestro che sale sulla predella. Possono accettare l’autorità di chi gli insegna come orientarsi nel mondo dell’informazione sostanzialmente infinita e facilmente accessibile.

 Ma non è facile né scontato neppure per i docenti, perché la nuova scuola chiede non solo di scendere dalla predella ma anche di spogliarsi della vesta aulica di maestro per trasformarsi da “agente che trasmette” a “guida che connette”. E tuttavia non è impossibile. Perché anche i docenti, nel nuovo ambiente informatico, stanno imparando a ri-creare il loro sapere. A vivere in un universo cognitivo fatto appunto di connessioni a rete e non più di singoli canali a percorso lineare. Certo, è prioritario, come sostiene Rovelli, restituire dignità anche economica ai docenti, tanto più se si trasformano in “guida che connette”.

Quella che proponiamo è certamente una visione illuminista, che guarda con ottimismo alle opportunità che ci spalancano le nuove tecnologie. Ma, altrettanto certamente, è quella di un illuminista realista. Perché riconosce che, così com’è strutturata, la scuola, di ogni ordine e grado, ancorché in maniera molto diversificata, è in mezzo al guado.

Mancano le risorse.

 In Italia la scuola è stata sottoposta a tagli molto pesanti: i tagli più pesanti, incredibile a dirsi, riservati da vari governi negli ultimi anni alla pubblica amministrazione: il doppio, rispetto alla media. Ma la scuola è in mezzo al guado anche e soprattutto perché è vecchia. Anche fisicamente. Il mondo intorno alle aule scolastiche è quello del XXI secolo. Ma le aule – metaforicamente e non solo – sono ancora quelle del XIX secolo.

 Eppure non partiamo da zero. Abbiamo una tradizione importante di pensiero pedagogico che spalanca sul futuro. Magari ci siamo dimenticati di loro, ma non è un caso se il nostro paese ha dato i natali a gente come Maria Montessori e don Lorenzo Milani, teorici e pionieri della scuola partecipata e personalizzata. Non è un caso che ha dato i natali a Gianni Rodari, teorico e pioniere della ri-creazione (nel suo duplice senso) continua dell’apprendimento. Non è un caso che ha dato i natali a Emma Castelnuovo, la matematica recentemente scomparsa che ha cercato strade nuove per insegnare la scienza dei numeri. E il pensiero scientifico come pensiero critico.

 Queste tradizioni non si sono esaurite. Ancora oggi nella scuola italiana ci sono energie vitali. Anche oggi la scuola italiana ha, al suo interno, le risorse umane per accettare e cercare di vincere le sfide dei tempi, perseguendo non un apprendimento fine a se stesso, non la semplice acquisizione di conoscenze e di nozioni, ma un tipo di apprendimento per competenze.

Michel de Montaigne, già nel Seicento, diceva: "Noi teniamo in serbo le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre. A cosa ci serve la pancia piena di cibo, se non lo digeriamo? Se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?".

In queste parole c’è il programma per uscire dalla contingenza e dalle politiche di bilancio e per costruire, fisicamente e metaforicamente, nuove aule. Aule spalancate a tutti: è la sfida della democrazia nella società della conoscenza. Ma anche aule in cui tutti, ciascuno secondo il proprio metabolismo, possono trovare e digerire il cibo della mente, trasformando i contenuti di sapere e di conoscenza in esperienze di costruzione d’identità, di elaborazione di progetti individuali, di capacità di adattarsi a un mondo che cambia e continuamente offre situazioni sempre nuove.

 Difficile? Certo. Perché si tratta di una sfida epocale. Utopico? No. Perché si può trasformare in un grande programma politico. In cui i “soggetti individuali” ciascuno con i suoi bisogni e le sue capacità sono chiamati finalmente a costruire un nuovo collettivo: la società democratica della conoscenza.

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