SOCIETÀ

Con le mani mi racconto

È lunedì mattina, inizia una nuova settimana per i ragazzi dell’opificio. Per cinque giorni, da lunedì a venerdì, si incontrano al centro sociale Django di Treviso e lavorano sodo, con passione. Talking Hands – Con le mani mi racconto è un impegno quotidiano. Nato nel novembre scorso come spin-off della palestra popolare Hurricane, attraverso l’attività manuale e la condivisione di racconti di vita, il progetto mira a creare un percorso di integrazione per richiedenti asilo e rifugiati attualmente ospitati all’interno del centro temporaneo di accoglienza all’ex Caserma Serena di Dosson di Casier.

Yankuba, Seiba, Malik, Ibrahim, Ser sono alcuni dei venti ragazzi coinvolti. Vengono da Senegal, Gambia, Mali, Nigeria, hanno storie e vissuti differenti e una gran voglia di riscatto. Raccontano frammenti delle loro vite, mostrano quello che sanno fare, ringraziano chi ascolta, perché la condivisione è preziosa, è fondamentale per far arrivare le loro storie anche fuori dall’opificio. “Al centro d’accoglienza trascorriamo le giornate senza fare nulla, qui invece possiamo lavorare, stare insieme e imparare l’uno dall’altro”, spiega Ibrahim. “Siamo giovani e abbiamo molta voglia di lavorare”, aggiunge Ser. Yankuba sottolinea le capacità di ognuno, parla di “skills”, di abilità: l’opificio infatti riunisce diverse competenze, c’è chi fa il falegname, chi restaura vecchi mobili, chi ricama con cura, chi intreccia corde di reti da pesca per realizzare borsette per la spesa e amache.

Foto: Massimo Pistore

Tra voci, legno e colori, gli spazi dell’opificio rappresentano una vera e propria casa per questi ventenni in attesa di conoscere il proprio destino. Poco prima della visita del Bo, il gruppo riceve una brutta notizia: “La sentenza in appello di rifiuto della domanda d’asilo e la conseguente sospensione delle misure di accoglienza per Seiba, uno dei primi ragazzi ad aver preso parte al nostro progetto, ha scosso tutti - spiega Fabrizio Urettini, coordinatore del progetto e guida per il gruppo - Oggi tocca a Seiba, domani a chi?”. Nessuno qui ha certezze, nessuno sa cosa accadrà, ma questi ragazzi si danno da fare, legano la speranza a progetti come questo, ne parlano con entusiasmo. È un ottimo inizio, ma serve ovviamente una visione di futuro.

Foto: Massimo Pistore

Dentro una stanza del centro sociale spuntano alcuni pezzi della prima collezione dell’atelier autogestito di falegnameria, realizzata in collaborazione con giovani e promettenti designer chiamati a coordinare il lavoro garantendo così professionalità e competenza nell’attività formativa e di sicurezza.Si chiama Rifùgiati e già nel nome (geniale) accoglie l’idea del gioco: sono micro-spazi per bambini dalla forte connotazione grafica, colorate casette in legno dove nascondersi per volare con la fantasia senza essere disturbati dagli adulti. Sono stati progettati dal designer trevigiano Matteo Zorzenoni e realizzati all’opificio scegliendo texture dei paesi d’origine dei ragazzi e utilizzando materiali di riciclo provenienti dagli allestimenti della Biennale di Venezia, ottenuti grazie al progetto Rebiennale. “Abbiamo presentato la collezione, per la prima volta, nel dicembre scorso, alla mostra mercato Man(IN)chiostro. Ora stiamo organizzando una donazione speciale: regaleremo infatti una delle piccole case a un asilo qui vicino”, un tentativo di apertura, un modo per favorire l’incontro e il dialogo tra i ragazzi dell’opificio e gli abitanti della zona. La prossima collezione sarà firmata dallo studio di Giorgia Zanellato e Daniele Bortotto, ma non è tutto: “Oltre a realizzare le collezioni, l’opificio offre un servizio di restauro, carteggiatura e realizzazione di piccoli elementi d’arredo su commissione”, e Urettini mostra una credenza anni Cinquanta ben restaurata e pronta per essere riconsegnata. Al termine dell’incontro, tutti tornano alle loro attività e Malik, un ragazzo senegalese con un fisico da rugbista, regala un’ultima riflessione: “Molti ci considerano un’entità unica, ma noi siamo uomini con storie personali molto diverse. Qui, ora, state conoscendo delle persone, dei lavoratori”.

Francesca Boccaletto

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