Luiz Inàcio Lula da Silva. Foto: Reuters
Ha il sapore del riscatto il ritorno sulla scena politica brasiliana di Luiz Inácio Lula da Silva, l’ex presidente “eliminato” nel 2016 a furor di sentenze (per corruzione e riciclaggio) che si sono poi sciolte come neve al sole. Sentenze formalmente annullate lo scorso anno per vizi di forma dalla Corte Suprema del Brasile. Mentre pochi giorni fa il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che le condanne contro Lula abbiano violato garanzie giuridiche e diritti civili dell’imputato, peraltro definendo “di parte” l’operato dell’ex giudice Sergio Moro, principale accusatore di Lula e poi “promosso” ministro della giustizia dall’attuale presidente, Jair Bolsonaro. Insomma, un agguato politico per far fuori il padre della sinistra brasiliana, che per queste vicende è finito in carcere per oltre 18 mesi. Per impedirgli di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018, poi vinte da Bolsonaro. Esattamente lo scenario descritto nel 2019 dalla rivista online The Intercept Brasil, che pubblicò una poderosa inchiesta in più puntate nella quale furono tra l’altro rese note le chat private su Telegram tra il giudice Moro e il pubblico ministero dell’inchiesta “Lava-Jato” (autolavaggio) sui fondi neri Petrobas, per “orientare” le condanne anche in assenza di prove. Moro, nella pratica, avrebbe aiutato lo staff dell’accusa a costruire il caso contro Lula, venendo meno all’imparzialità del suo ruolo. Politica “sporcata” da una magistratura di parte, che ha giocato il tutto per tutto pur di far eleggere Bolsonaro.
Bom dia! Hoje volto a Vila Soma, em Sumaré, um bairro fruto da reivindicação de direitos de mais de 2 mil famílias da região que só querem ter uma vida digna.
— Lula (@LulaOficial) May 5, 2022
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Lula è tornato, con i suoi 76 anni, il suo aspetto da nonno burbero o bonario, la sua voce sempre più roca e un incrollabile desiderio di riscatto. Alle prossime elezioni presidenziali (si terranno il prossimo 2 ottobre, con ballottaggio il 30) ci sarà. E ci sarà da protagonista, anche se la vittoria è ancora tutta da conquistare, visto che i sondaggi continuano a darlo sì in testa nei confronti di Bolsonaro (l’ultimo recita 41% contro 36%), ma non con percentuali rassicuranti. L’ex presidente parte tuttavia con un doppio vantaggio: la fedina penale ripulita (almeno fin quando non saranno ricelebrati i processi, presso la corte della capitale Brasilia) e la “deprecabile”, definiamola così, presidenza del suo sfidante che, al netto delle denunce per genocidio e crimini contro l’umanità, in quattro anni non è riuscito a invertire come promesso il corso dell’economia (portando, complice anche una disastrosa gestione della pandemia, recessione, inflazione a due cifre, e un’emergenza alimentare che riguarda oggi oltre metà della popolazione brasiliana), dichiarando al contempo una guerra inumana contro le popolazioni indigene per favorire gli interessi delle multinazionali nei terreni di proprietà dei popoli nativi («È un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare i suoi Indiani», è una delle sue frasi cult), diventando un paladino delle deforestazioni e arrivando perfino ad accusare le Ong di aver appiccato incendi in Amazzonia “per metterlo in difficoltà”. E riuscendo ad allontanare il Brasile dalle più elementari pratiche democratiche, stringendo ad esempio alleanze con le forze armate e piazzando generali senza alcuna competenza a capo dei ministeri chiave: esemplare il caso di Edoardo Pazuello, generale a 3 stelle dell’esercito, ex ministro della Salute (si è dimesso il 7 aprile scorso perché vuol candidarsi alla Camera proprio tra le fila del Partito Liberale capeggiato da Bolsonaro). Come scrive il settimanale brasiliano Veja: «Sotto la direzione di Pazuello il governo ha incoraggiato un trattamento precoce, fornendo ai brasiliani malati farmaci inefficaci contro il Covid-19. A Manaus, le persone sono morte senza ossigeno negli ospedali. I vaccini salvavita sono stati acquistati in ritardo e i contratti ministeriali sono diventati bersagli di accuse di corruzione da parte della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla pandemia». Commissione che peraltro ha chiesto l’incriminazione anche dell’ex generale per crimini contro l’umanità. Insomma, non proprio un esempio specchiato di buon governo.
«La decisione spetta al popolo»
Lula torna con diversi macigni da togliersi dalle scarpe. «Oggi sono felice, questa decisione delle Nazioni Unite per me è stato uno straordinario lavaggio dell’anima», ha dichiarato la settimana scorsa, dopo la conclusione dell’istruttoria del Comitato per i diritti umani dell’ONU. Che peraltro ha precisato: “Sebbene la Corte suprema federale abbia annullato la condanna e la reclusione di Lula nel 2021, queste decisioni non sono state sufficientemente tempestive ed efficaci per prevenire o riparare le violazioni”. L’ex presidente ha commentato così: «Le Nazioni Unite hanno concesso 180 giorni al Brasile per affrontare il modo in cui effettuerà il risarcimento.
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— Lula (@LulaOficial) May 4, 2022
L'ideale sarebbe se potessi mandar via Bolsonaro e mettermi subito a presiedere il Paese: ma siamo alla fine del mandato e non lo voglio nemmeno io. Sarà il popolo a decidere». Intanto un gruppo di sostenitori di Lula e deputati del PT (Partido dos Trabalhadores, dei Lavoratori) ha presentato alla Corte Federale una richiesta di danni a carico dell’ex giudice Sergio Moro, per le illegittimità da lui commesse durante l’inchiesta Lava-Jato. Lo stesso Sergio Moro (che potrebbe candidarsi alle presidenziali a sostegno di Bolsonaro, ma le sue mosse non sono ancora del tutto chiare) ha replicato in una nota: «Considero la decisione del Tribunale Supremo Federale un grave errore giudiziario che purtroppo ha influenzato indebitamente il Comitato delle Nazioni Unite. In ogni caso, nemmeno il Comitato nega la corruzione in Petrobras o afferma l’innocenza di Lula».
Luiz Inácio Lula da Silva è molto più che un qualsiasi ex presidente. Operaio metalmeccanico, sindacalista, una vita spesa dalla parte dei più deboli, lui stesso tra i fondatori del Partido dos Trabalhadores e in prima linea per fronteggiare la dittatura militare (1964-1985), è stato il simbolo del riscatto per quei 40 milioni di brasiliani che grazie alle sue politiche pubbliche (lavoro, casa, diritto all’istruzione) sono finalmente riusciti a risollevarsi dall’indigenza. Un presidente “di periferia” che dopo tre elezioni perse, è stato capace di portare in Brasile, tra il 2003 e il 2010, una stagione di solidità economica e politica. Il mandato della sua delfina, Dilma Rousseff, che prese il suo posto a Palácio do Planalto, proseguì in quello stesso solco. Poi, nel 2016, l’uno-due che mandò al tappeto la sinistra brasiliana: prima l’incriminazione di Lula (e di molti esponenti del PT, compresa la presidente), poi l’impeachment e la successiva destituzione di Dilma Rousseff, accusata di aver manipolato il bilancio dello Stato per garantirsi la rielezione («Hanno condannato una innocente e consumato un golpe parlamentare», dichiarò la Rousseff). L’anticamera per l’ascesa al potere dell’estrema destra populista di Jair Bolsonaro.
Un ticket con l’ex rivale di centrodestra
Domani, 7 maggio, Lula presenterà ufficialmente la sua candidatura, in ticket con il suo storico rivale, l’ex governatore di San Paolo, il moderato di centrodestra Geraldo Alckmin (Partido Socialista). Ma l’alleanza per riportare Lula alla presidenza del Brasile è assai ampia e comprende anche i socialdemocratici (PSBD) e il Partito Socialismo e Libertà (PSOL), il che la dice lunga su quanti strati della società brasiliana vogliano voltare la pagina buia di Bolsonaro. Quanto a Dilma Rousseff, Lula è stato chiaro: «Dilma sarà con me prima, durante e dopo le elezioni. Sarà il capo elettorale della mia campagna». Battagliero, come sempre. In un’intervista rilasciata pochi giorni fa al Time (che l’ha messo in copertina, col titolo “Lula, atto secondo”) ha confessato: «In verità, non mi sono mai arreso. La politica vive in ogni cellula del mio corpo, perché ho una causa. Sono trascorsi 12 anni da quando ho lasciato l’incarico, e vedo che tutte le politiche che ho creato a beneficio dei poveri – l’inclusione sociale, quello che abbiamo fatto per migliorare la qualità delle università, delle scuole tecniche, migliorare la qualità dei salari, migliorare la qualità del lavoro - sono state distrutte, smantellate». Ma l’elezione del prossimo presidente si giocherà anche su altri temi: la violenza nelle periferie, quella della polizia, il razzismo (il mese scorso il Brasile è stato denunciato al Parlamento europeo e alle Nazioni Unite per violazione dei diritti umani delle popolazioni indigene), la parità di genere. Parlando alcune settimane fa a migliaia di nativi accampati per protesta a Brasilia, Lula ha promesso di annullare, se verrà eletto, le politiche dell’attuale presidente sugli indigeni: «Bolsonaro è un fascista allineato con coloro che vogliono uccidere le nostre foreste». Senza dimenticare l’economia, in un paese che ha visto il Pil procapite dimezzarsi dal 2014. Con la proposta, di pochi giorni fa, di creare una moneta unica per l’intera America Latina: il “Sur”. «Così non dovremo più dipendere dal dollaro», ha spiegato. Ma l’ipotesi, suggestiva, non sembra scaldare i cuori degli economisti, che ritengono ancora lontana una possibile “convergenza delle economie” dei vari Paesi. Ma nessuna intenzione di interrompere le esplorazioni petrolifere: «Questo non è reale – spiega -. Finché non avremo energia alternativa, dovremo continuare a usare l’energia che abbiamo».
Il vero problema di Lula, oltre a contenere i suoi detrattori (che non sono pochi, a partire dalle grandi compagnie che con Bolsonaro hanno fatto affari d’oro), sono gli scettici: quelli che leggono ancora ombre sul suo passato, che magari vorrebbero aspettare l’esito dei nuovi processi prima di concedere nuova fiducia. Quelli che, a torto o a ragione, associano il Partido dos Trabalhadores con la corruzione, con la crisi economica. O che vorrebbero un ricambio della classe dirigente. O che magari stanno aspettando un candidato che non parli soltanto del passato, ma dei problemi odierni del paese. Sempre al Time ha dichiarato: «Non discutiamo di politiche economiche prima di vincere le elezioni. Per prima cosa devi vincere le elezioni. Invece di chiedere cosa farò, guarda solo quello che ho fatto». Thomas Traumann, ex ministro delle comunicazioni sotto il PT e oggi commentatore politico: «Lula non ha davvero presentato un piano per il futuro. Per il momento, sta solo presentando l’idea di essere un presidente migliore di Bolsonaro. Lula è in vantaggio, ma Bolsonaro non è sconfitto, nonostante il suo governo sia stato, oggettivamente, un fallimento: non ha portato crescita economica, non ha migliorato la vita delle persone, ha avuto 660morti durante la pandemia». Emblematico l’appello lanciato pochi giorni fa dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile: «Le cose non stanno andando bene. Fame e insicurezza alimentare sono uno scandalo per il Paese, come il degrado degli ecosistemi, il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni indigene, la persecuzione e la criminalizzazione dei leader socio-ambientali, la precarietà delle azioni di contrasto ai crimini contro l’ambiente». La conseguenza, proseguono i vescovi, è «una violenza latente, esplicita e crescente”, come effetto della liberalizzazione e dell’avanzamento dell’attività mineraria nelle terre indigene, dell’allentamento dei limiti al possesso di armi, della legalizzazione del gioco d’azzardo, dei femminicidi, del disprezzo per i poveri». Un altro dato che aiuta a comprendere la drammatica situazione in cui versa il Brasile: negli ultimi dieci anni è raddoppiato il numero delle favelas. Hanno fatto scalpore, pochi mesi fa, le foto pubblicate sulla rivista Extra che ritraggono alcune persone che frugano in un camion tra carcasse di animali e scarti di macelleria, in cerca di qualcosa da mangiare. Il tasso di disoccupazione per il 2022 è previsto al 13,7%, uno tra i più alti al mondo.
Ma Bolsonaro cresce nei sondaggi
Situazione drammatica dunque, ben oltre il livello di guardia. Eppure Bolsonaro sta risalendo nei sondaggi delle ultime settimane, grazie soprattutto al disegno di legge per ridurre le tasse sui carburanti e con i sussidi ai più poveri per far fronte agli aumenti della luce e del gas. Il presidente uscente ha ancora un’enorme popolarità tra i grandi gruppi imprenditoriali, tra i “pastori bolsonisti” delle comunità evangeliche (per i quali è stato coniato lo slogan “in gold we trust”), tra tutti coloro che vedono nell’autoritarismo la via maestra per attraversare la crisi. Nell’ultimo sondaggio realizzato a San Paolo c’è stato addirittura il sorpasso: 35,8 per Bolsonaro, 34,9 per Lula. È ancora presto per i decimali, ma è sicuramente un segnale.
Ma Lula non cambia marcia, non cambia stile. Come se, almeno finora (la campagna elettorale è appena partita), stesse tentando di convincere il suo elettorato alimentando il suo stesso mito, limitandosi a sventolare una bandiera con la sua immagine. Un uomo che è già nella storia, con la sua incredibile traiettoria fatta di fame e di fatica, di successo e di potere, ma anche di polvere, di tradimento, di sconfitta, che ha conosciuto l’esaltazione e la più profonda solitudine. E ora l’occasione della redenzione, del riscatto umano e politico. «Sono sicuro che i problemi saranno risolti solo quando i poveri potranno partecipare all’economia, quando i poveri avranno un lavoro e avranno da mangiare. Questo sarà possibile solo se avremo un governo che si impegna a favore delle persone più povere. Il Brasile deve essere sistemato». La parola fine, nella storia di Luiz Inácio Lula da Silva, dev’essere ancora scritta.