L'unica cosa positiva del Covid, oltre al tampone, è che ti permette di recuperare tutti quei libri accatastati in quella che si potrebbe chiamare "la pila della vergogna": volumi comprati sull'onda dell'entusiasmo o in occasione di qualche offerta speciale e poi abbandonati lì per anni, con un vago senso di imbarazzo messo a tacere garantendo ai poveri malcapitati che prima o poi arriverà il loro momento. Per ora è arrivato quello di L'ultima estate di Berlino che Federico Buffa, giornalista sportivo tra i massimi esperti italiani di NBA e storyteller noto per il suo lavoro su Sky, ha scritto con Paolo Frusca e pubblicato con Rizzoli.
Siamo a Berlino, durante quelle Olimpiadi passate alla storia, e non (solo) per essere state le ultime prima della Seconda Guerra mondiale. Voci narranti di storie che sfiorano il confine dell'epica sono due individui, ai lati opposti della barricata: il capitano Wolgang Fürstner, ex comandante del villaggio olimpico, e Dale Warren, giornalista americano dell'Herald Tribune con un debole per le donne che, al contrario del primo, è un personaggio inventato. Fürstner è stato destituito dal suo ruolo con un pretesto poco prima dell'inizio dei giochi. In realtà quasi tutti sanno qual è il vero motivo: suo nonno era di sangue ebraico, e a nulla valgono i successi in battaglia del nipote, il desiderio di dare la vita per una Germania che un tempo venerava e che sembra assumere sempre più le fattezze di un mostro crudele.
Fürstner è un morto che cammina, in un'atmosfera paradossale: da una parte c'è il clima sportivo all'interno del villaggio olimpico, dove professionisti provenienti da paesi politicamente contrapposti si scoprono amici pronti a collaborare. Dall'altra parte, appena si esce dai cancelli, si incontrano manifesti contro gli ebrei, e si sente forte quel clima di rabbia repressa mista a un senso dell'onore distorto fino alle estreme conseguenze. Tutto questo è molto chiaro per Fürstner, che quattro giorni dopo la fine di quelle Olimpiadi si uccise con un colpo di pistola perché sapeva che, dopo quella destituzione, sarebbe stato espulso anche dall'esercito che per anni era stato la sua ragione di vita.
“ L'ex comandante del Villaggio olimpico, che si appresta a diventare un ex ufficiale della Wehrmacht non può più stare al fianco di una von Schlick. Troppo umiliante. Troppe battute ironiche al circolo del bridge Federico Buffa
Eppure nulla di tutto questo emerge all'interno del villaggio olimpico, che, seppur minacciato dalla nebbia della politica, vive un momento di gioia e di sport. Il libro è un mosaico di storie, con ritratti femminili particolarmente potenti: da una parte c'è Leni Riefenstahl, ricordata come la fotografa del Reich, che in realtà non ha mai preso la tessera del partito, e che ha immortalato l'espressione di disappunto di Hitler mentre Jesse Owens faceva incetta di ori.
Dall'altra parte, c'è l'americana Eleanor Holm, che aveva vinto l'oro nel '32 per i 100 metri a dorso. Creatura dall'entusiasmo travolgente, nel '36 non gareggiò mai a causa della sua eccessiva passione per lo champagne: durante il viaggio si ubriacò clamorosamente il filo-nazista Avery Brundage la mise fuori dal gruppo. Invece che sedersi in un angolo a leccarsi le ferite, diventò corrispondente da Berlino per il magnate dell'editoria Randolph Hearst, si dette alla bella vita e non mancò nemmeno un evento mondano, alla faccia di Brundage che fingeva di non conoscerla (e che quell'anno sarà lo stesso che impedirà a Marty Glickman e Sam Stoller di correre la staffetta in quanto ebrei). Del resto Eleanor aveva Dale Warren che scriveva gli articoli al posto suo perché "si può dire di no a Eleanor Holm, quando ti chiede una cosa con quel tono di voce, con quegli occhi già quasi pieni di lacrime, finte, ovvio, le labbra rosse e tremanti e quella sensazione perenne che ti stia prendendo in giro? No, non si può".
Trattandosi di Buffa, non mancano naturalmente incursioni nel basket, sport approdato alle olimpiadi del '36 assieme al baseball unicamente per premiare quegli atleti americani che non le avevano boicottate: la squadra americana era costituita dai membri del dopolavoro della Universal Pictures e il loro giocatore di punta era Pranas Lubinas, un lituano che in America aveva preso il nome di Frank Lubin, soprannominato Frankenstein perché aveva fatto la sua controfigura agli studios e che finirà la sua carriera di cestita a 50 anni per la concorrenza, cioè la Century Fox. Nel '36, una finale contro il Canada vinta dagli Stati Uniti 19 a 8 sotto un diluvio torrenziale che impediva ai giocatori di vedere il canestro. Scettici i tedeschi, che si domandavano a chi mai sarebbe potuto interessare uno sport come quello. Un certo interesse lo dimostra invece Carl Lutz Long, medaglia d'argento che a quanto pare ha dato una mano a Jesse Owens spiegandogli come migliorare la rincorsa, anche se sospettava che gli avrebbe soffiato la medaglia d'oro.
E poi c'è proprio Jesse Owens, l'atleta afroamericano che aveva già eguagliato un primato mondiale e ne aveva battuti tre in soli 45 minuti, quello dei quattro ori nel 36' che però, al ritorno in patria, viene costretto a entrare in hotel esclusivamente dalla porta di servizio e che non riceverà mai il telegramma di congratulazioni dal presidente Roosvelt, a differenza di Glenn Morris. Paradossalmente, in Germania era stato accolto da un boato entusiasta, e nella sua autobiografia ha dichiarato che Hitler gli aveva rivolto un cenno di saluto quando lui era passato sotto la tribuna d'onore.
Non mancano storie più commoventi. Quella di del giapponese Son Kitei che vince la maratona e che, sul podio, nasconde la bandiera cucita sulla divisa. Qual è il motivo di questo comportamento apparentemente inspiegabile?, si chiede Dale Warren. Le persone all'interno del villaggio olimpico non lo sanno, ma il vincitore della maratona è coreano, non giapponese. La Corea, però, è stata annessa al Giappone, che quando si tratta di vincere non va troppo per il sottile, e lui ha corso per un paese che gli ha tolto dignità, cultura, tradizioni e persino il nome: non si chiama Son Kitei, ma Sohn Kee-chung, che è il suo nome coreano. Di fatto, è uno schiavo, tanto che i capi delegazione non gli permettono di ricevere in regalo l'elmo d'oro che i greci volevano offrire al vincitore della maratona. La storia rimedierà soltanto molti anni dopo, e nel 1988 alle olimpiadi di Seul lui sarà l'ultimo tedoforo.
Il '36 è stato l'anno del sogno, il momento in cui la speranza vinceva in qualche modo la paura. E qui si spiega la presenza dei due narratori diversi: Warren, pervaso dal quell'ottimismo tipicamente americano, vede solo quello che i tedeschi gli vogliono mostrare, cioè l'organizzazione, la grandiosità, lo sport e il successo dell'evento. Ogni tanto ci sono dei lampi che gli fanno intuire una contraddizione intrinseca, ma lui non se ne cura. Fürstner invece ha una visione più completa e vede un mondo, il suo mondo, che si avvia allo sfacelo senza rendersene conto, inseguendo la gloria con l'entusiasmo di un bimbo ingenuo. Un sogno che si infrange nelle grida "Heil Hitler" che rimbombano allo stadio Olimpico di Berlino, un oscuro presagio del Buio che avvolgerà il mondo di Owens, Morris, Long e di tutti gli altri.