Bisogna fare in fretta. E lavorare bene. Il rischio? Quello di una destabilizzazione senza ritorno del nostro – già fragile – ecosistema. Non ci sono mezze misure nell’ultimo rapporto dell’IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate change), intitolato “Global Warming of 1.5°C, an IPCC special report on the impacts of global warming of 1.5°C above pre-industrial levels and related global greenhouse gas emission pathways, in the context of strengthening the global response to the threat of climate change, sustainable development, and efforts to eradicate poverty”.
Il testo, rilasciato oggi (8 ottobre 2018), avverte chiaramente: “Limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale garantirebbe un miglioramento sensibile in tutti gli aspetti della società, con chiari benefici nei confronti delle persone e dell’ecosistema per una società più sostenibile e più equa”.
Mezzo grado in più o in meno, capace però di fare una differenza enorme. È questo il messaggio indirizzato ai governi del mondo, che si riuniranno a dicembre, alla conferenza sul climate change di Katowice – Polonia – per ridefinire e rivedere gli accordi (molto blandi) sul clima presi durante l’accordo di Parigi del 2015. In quell’anno, i Paesi aderenti (195, compresi gli Stati Uniti che hanno scelto, invece, di ritirarsi nel 2017) presero la decisione di cercare di contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale.
Ecco, quella cifra, che agli scienziati già suonava come un compromesso al ribasso, ora non basta più. È necessario fare uno sforzo in più e far scendere il contenimento del rialzo medio della temperatura da 2 a 1,5 gradi centigradi. L’importanza di mezzo grado, differenza che ai più potrebbe suonare come una sottigliezza, una questione di lana caprina, è in realtà un’urgenza da soddisfare per garantire un futuro migliore al nostro pianeta e a chi lo abita e lo abiterà nel futuro.
Il rapporto, stilato – è bene ricordarlo – attraverso l’uso di oltre 6.000 referenze scientifiche e curato da 91 autori da tutto il mondo, non lascia adito a dubbi: “Stiamo già osservando – spiega Panmao Zhai dell’IPCC – le conseguenze dell’aumento della temperatura di un grado attraverso fenomeni climatici più estesi e violenti, l’aumento dei livelli del mare, la diminuzione dei ghiacci artici”. Da qui la richiesta ai ‘potenti del mondo’ di accelerare e di migliorare le azioni che possano contenere l’aumento globale della temperatura e le emissioni di gas climalteranti nell’atmosfera.
Se si riuscisse a mantenere l’aumento medio della temperatura al di sotto degli 1,5 gradi centigradi i benefici, visibili e certificati, sarebbero molti: “Entro il 2100 l’aumento del livello dei mari sarebbe inferiore di 10 centimetri; la probabilità di trovarsi con l’Oceano Artico privo di ghiaccio in mare in estate scenderebbe a una chance per secolo contro una per decennio se le temperature fossero contenute solo a 2 gradi centrigradi. Ancora: se si contenesse l’aumento medio a 1,5 gradi il declino delle barriere coralline si attesterebbe tra il 70 e il 90%. Certo, una previsione infelice, ma di sicuro meglio della distruzione, virtualmente, di tutta la barriera corallina se le temperature fossero contenute di due gradi.
“Ogni piccolo incremento di temperatura conta – ammonisce – Hans-Otto Portner, co-chair dell’IPCC workin group II – soprattutto se ogni aumento rischia di produrre dei cambiamenti climatici ormai irreversibili”.
Il nostro pianeta è destinato quindi a diventare inospitale per la vita a causa di una malattia chiamata “clima”?
No, non ancora perlomeno.
L’IPCC lascia qualche spiraglio di speranza: c’è ancora la possibilità di contenere il riscaldamento globale, ma bisogna agire in fretta e in modo collegiale, lavorando ancora di più su alcune pratiche virtuose già in essere. Nessuna scelta al ribasso. La roadmap è tracciata: ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 causate dall’uomo del 45% rispetto ai livelli del 2010, raggiungendo lo zero netto entro il 2050. Il come farlo è appannaggio delle decisioni politiche, ma servono transizioni rapide e di “ampia portata” nella produzione di energia (con una riduzione drastica dell’uso di fonti provenienti da combustibili fossili), nell’utilizzo del suolo, nell’industria, nei trasporti e nella costruzione degli edifici nelle città. E per farlo servono investimenti che al momento non ci sono: decarbonizzare il settore energetico equivale a investire circa 900 miliardi di dollari all’anno. A questo si dovrebbe aggiungere la necessità di eliminare dall’aria le emissioni di CO2 derivanti dalla deforestazione, dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e da tante altre ‘piccole’ azioni che potrebbero migliorare la salute globale del pianeta Terra.
Se fallissimo? Non dobbiamo farlo, perché le conseguenze potrebbero essere devastanti: aumento dei fenomeni meteorologici estremi, aumento dei rischi sulla salute umana con morti, carestie e mancanza di acqua che causerebbero una crescita dei cosiddetti migranti climatici.
Se non fallissimo? Il mondo sarebbe migliore e starebbe meglio. Certo, non saremmo fuori pericolo, ma potremmo vivere con un margine migliore. Le decisioni prese oggi, ma soprattutto quelle che prenderanno i governi a dicembre, saranno l’ago della bilancia tra garantire un futuro più “verde” alla Terra e alle generazioni future o destinare un mondo potenzialmente inabitabile ai futuri noi tra qualche anno.
La comunità scientifica si è espressa, ora si attendono le scelte politiche. Ma il tempo scorre e quel mezzo grado è l’unico risultato apprezzabile e possibile.