CULTURA

Ciak, si gira. Il cinema dietro le quinte

Si spengono le luci, odore di pop corn e di poltroncine in pelle, rumori attutiti di passi di un qualche ritardatario che chiede sottovoce “permesso” per raggiungere il proprio posto a sedere. Poi ecco che lo schermo s’illumina e inizia la proiezione.

Il cinema è un’esperienza immersiva di cui noi fruitori esperiamo il risultato finale, spesso ignari di cosa preceda un’operazione apparentemente scontata com’è quella di lasciarsi “attraversare” da un film.

Invece, come per altri settori (si pensi a quanto lavoro si cela dietro a un romanzo che distrattamente sfogliamo in libreria, al supermercato o in autogrill), nelle retrovie del cinema sussiste una preparazione enorme, e, analogamente al mondo editoriale, gli addetti ai lavori devono porsi di continuo problemi di scelta su quale direzione intraprendere.

Ne abbiamo parlato con Antonio Medici, amministratore delegato di BIM Distribuzione.

 

La funzione culturale e sociale del cinema sta cambiando negli ultimi anni? E se sì, in quale direzione?

 

La funzione del cinema è sicuramente è cambiata, nel senso che “c'è molto meno”: i film che erano (e sono) portatori di di una certa idea di cultura (i film che parlano del reale, come si suol dire) hanno un pubblico di riferimento sempre più ridotto. Ne escono molti di meno, e quelli che escono incontrano poco il pubblico, quindi il problema non mi sembra il cinema ma la società, che è cambiata, e come per tutte le altre forme di espressione culturale, purtroppo sembra essersi ridotto il bacino di pubblico potenziale.

 

In questo senso chi lavora nel cinema (registi, produttori ecc.) cerca di andare incontro a un nuovo pubblico, o di costruirne uno nuovo?

 

Ho l'impressione che non sia così. La gran parte dei registi o dei produttori cercano di andare verso il pubblico che già c’è, ma non di dare una direzione verso la quale andare insieme; poi ci sono degli altri registi e degli altri produttori che, per usare un termine un po' brutale, se ne infischiano completamente del pubblico e vanno per la loro strada. Per me sono entrambi modi per non riflettere né sulla realtà né sul contesto.

 

Quindi è sensato parlare di crisi del cinema (oltre che crisi della letteratura ecc.)?

 

Se uno guarda il numero dei biglietti venduti, questo in Italia è più o meno stabile da moltissimi anni: in Italia si vendono 100 milioni di biglietti l'anno, qualche anno un po' di più (in genere quando c'è un film di Zalone), qualche anno un po' di meno. Da questo punto di vista non c'è alcuna crisi del cinema anzi, si potrebbe dire che siccome il consumo di cinema non passa più solo attraverso le sale ma anche attraverso altri strumenti, quali ad esempio le piattaforme, forse la fruizione del prodotto filmico potrebbe persino essere aumentata.

Se però si fa un secondo passo, si osserverà che quei 100 milioni di biglietti venduti sono venduti per la maggior parte per un numero sempre più ridotto di film: il pubblico è costante, il numero dei film in uscita aumenta di anno in anno, ma il pubblico si concentra solo su un certo tipo di film, piuttosto omologato. Quello che è in crisi è la diversificazione. Io ho grande rispetto per il mercato, e penso vada studiato, osservato, interpretato, ma credo che in un mercato sano ci dovrebbe essere posto per tutti: posto per i blockbuster americani, per le grandi commedie italiane, però anche per il cinema d'autore e le cinematografiche indipendenti. Quello che invece sta succedendo, ed è questa la vera crisi, è che sembra esserci posto solo per i blockbuster e per la grande commedia italiana mentre tutto il resto è una “torta” che si riduce sempre di più. Mi sembra che il problema sia culturale non del cinema nel suo specifico.

 

Per quanto riguarda le nuove tecnologie, in che modo influenzano il mondo del cinema?

 

Penso che non ci si possa opporre a questo processo, e anzi credo che siano una grande opportunità: dipende sempre dall'uso che se ne fa. Gli effetti speciali li usano gli studios americani ma anche i film indipendenti o di cinematografia emergente. La possibilità di fare dei film ‒ usando un’iperbole ‒ con dei telefonini o con dei mezzi ridotti comporta che si possano fare film spendendo meno e avendo bisogno di meno fondi, e questo è un vantaggio. Non mi pare che la tecnologia in sé abbia portato un impoverimento del cinema: non è lì il problema.

 

Dal suo punto di vista, di chi lavora in una casa di distribuzione, come vede il fatto di guardare i film in streaming? Un caso che ha colpito l’opinione pubblica è stato quello di Netflix estromessa da Cannes per avere messo in onda il film il giorno stesso in cui usciva al festival…

 

Questa è una questione piuttosto complessa. Netflix è un creatore di contenuti: questi a volte vanno in sala, a volte non ci vanno (quasi sempre), e nel 2017 Cannes aveva preso dei suoi film. La Francia è un Paese però dove il sistema cinema è molto forte, e pertanto c’è stata una levata di scudi da parte del sistema che ha fatto sì che, nel 2018, non è vero che Cannes non abbia preso i film di Netflix, ma ha offerto a Netflix solo film fuori concorso, cosa che non è stata accettata. Quello che è interessante è la politica di Cannes (il festival di cinema più importante del mondo, più anche dei festival americani), che ha fatto una scelta di difesa del cinema di un certo tipo e l’ha fatto non tanto nella diatriba con Netflix, che è principalmente di carattere economico dietro alla quale ci sono gli interessi dell'industria francese, ma nella selezione che Frémaux, il direttore di Cannes, ha fatto, e per la quale è stato anche molto contestato: non grandissimi film americani, non grandi star, un cinema più estremo ecc.

Ha fatto una cosa veramente meritoria essendo lui la persona che più di tutto il mondo se lo può permettere: ha operato una difesa del cinema nel senso più puro. Anche perché moltissimi film se non si vedono ai festival non si vedranno più, scompariranno.

Per quanto riguarda lo streaming, anche questa è un’opportunità: quello che sta succedendo è che ci sono dei film (sempre meno) che avranno la forza di affrontare l'uscita nelle sale cinematografiche, altri che non hanno più questa forza e che sono destinati direttamente allo streaming altrimenti non verrebbero visti, e poi ci sono dei film che possono beneficiare di entrambi i canali, questo perché siamo in un momento di passaggio del mercato e del consumo .

Voglio però fare una considerazione un po' più di carattere tecnico: io che faccio il distributore di un certo tipo di film, cosiddetti “di qualità” (di Ken Loach, dei fratelli Dardenne, insomma dei grandi autori europei), per come è il mercato cinematografico oggi in Italia, so che dei film così escono al meglio in 80 cinema in tutta Italia (e 80 cinema non vuol dire 80 città, perché ad esempio a Roma escono in 3-4 sale, in 2 a Milano ecc.). Ciò significa che c'è un enorme porzione del Paese dove o non ci sono più i cinema, o i cinema che ci sono non programmano questo tipo di film, ma siccome credo che ci siano anche in questa fetta del Paese delle persone che vorrebbero vederli, ma che non ne hanno la possibilità, mi piacerebbe poterli distribuire al cinema dove è possibile e poi ‒ perché no ‒ dove il cinema non c’è, o non proietta quel tipo di film, vorrei poter mettere a disposizione una piattaforma streaming geolocalizzata per dare agli spettatori un'opportunità in più, che diviene un’opportunità anche per i distributori, e soprattutto un’opportunità in più per i film in sé, il cui scopo finale è quello di essere visti.

Ragionando sul mercato e come si evolve, cioè, si potrebbero ideare delle modalità di distribuzione che portassero i film in luoghi dove il cinema non c'è e ciò mi sembra un modo in cui lo streaming diventerebbe un vantaggio senza penalizzare le sale. Bisognerebbe ragionare meglio su come si evolve il mercato più che continuare a porre dei paletti, tanto poi il mercato ha sempre la meglio: storicamente è così.  

 

Ho letto che l'industria cinematografica più grande al mondo è quella indiana. Noi la conosciamo pochissimo e nelle nostre sale vediamo film americani, film italiani, film francesi, inglesi, tedeschi, come mai?

 

La cinematografia più grande è quella indiana perché producono una marea di film solo per il mercato interno e siccome questo conta circa un miliardo di persone, se si intende il termine “più grande” come numero di film prodotti è così, però questo mi pare un indice molto relativo.

 

Ma come mai nelle nostre sale vediamo film italiani, francesi, tedeschi, spagnoli e raramente giapponesi, cinesi o indiani?

 

Perché il pubblico è sempre meno disponibile a interpretare un linguaggio cinematografico diverso. Noi ad esempio abbiamo distribuito Un affare di famiglia, il film giapponese di Koreda che ha vinto il festival di Cannes, e per questo un po’ più di pubblico è andato a vederlo, ma non tantissimo in termini assoluti, perché comunque il cinema giapponese o centro orientale in genere non rientra più nell'immaginario del pubblico, che invece è molto alimentato dalle immagini del cinema americano o in ogni caso di lingua inglese. La situazione è molto peggiorata, in questo senso. Stando alla BIM da tanti anni posso dire che abbiamo molto spesso distribuito dei film che venivano da cinematografia emergente. C’è stata a un certo punto l’ondata del cinema cinese, penso a Lanterne rosse piuttosto che Addio mia concubina e la gente andava a vederli. Poi c'è stata un’ondata di cinema iraniano, penso alle opere di Kiarostami e Panhai, e analogamente le persone andavano volentieri a vederle. Oggi di questi film se ne distribuiscono molti di meno, e quando avviene il pubblico è molto ridotto, non perché i distributori siano cattivi o non si facciano più film in Iran, ma perché il pubblico non ci va più. I gusti del pubblico si sono omologati.

 

Come distributori, voi riuscite a prevedere un successo di botteghino? Che genere di ragionamenti fate?

 

Il ragionamento lo si fa sempre, poi se esistesse una formula esatta gli Americani l’avrebbero già scoperta e tutto sarebbe finito! Con le difficoltà che ci sono oggi si fa un ragionamento di tipo economico, questo va detto, perché i film costano e i conti devono più o meno tornare. Il fatto di prenderci conta alla fine dell'anno, se sono più le volte che ci hai preso di quelle che non ci hai preso. Succede anche che tutti gli indicatori siano positivi e il film vada male, o viceversa siano negativi e si abbia una sorpresa inaspettata. Insomma è molto difficile fare previsioni, ed è anche per questo che il prodotto americano si sta sempre più omologando, perché si pensa che attraverso una omologazione del prodotto si riesca più facilmente a prevedere il livello di incasso, sistema che applicato a quel mondo in qualche modo funziona, ma è un modello poco replicabile al cinema indipendente, dove le variabili sono moltissime.

 

E a proposito di cinema “dietro le quinte” abbiamo avuto la fortuna di intervistare Federica De Paolis, scrittrice, ma anche dialoghista, mestiere fondamentale nel cinema ma ai più misconosciuto, con la quale abbiamo chiacchierato del suo lavoro ma anche di cinema (e di scrittura) in genere:

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