CULTURA

La Cina pre-boom di Antonioni che imbestialì il Partito di Mao

Voci alla rinfusa. Intrecci di clacson. E scampanellii di biciclette, tanti. Il volto di una ragazza con grandi trecce nere, che si guarda intorno seria ma incuriosita: siamo nel cuore di Pechino, in Piazza Tienanmen. È l’inizio di Chung Kuo, Cina, il documentario di Michelangelo Antonioni di cui ricorrono i cinquant’anni. Tre ore e mezza di riprese tra Pechino, Shanghai, Nanchino, Suzhou, i villaggi dell’Henan, per raccontare al mondo la Cina del 1972, un paese ancora chiuso e sconosciuto, in un’epoca in cui gli effetti della Rivoluzione Culturale e il pensiero di Mao erano al centro della vita economica e sociale di un popolo che, solo pochi anni dopo, avrebbe avviato la seconda rivoluzione, quella di Deng Xiaoping, la moltiplicazione del pil pro capite e la corsa al “capitalismo socialista”. Un documento che, visto oggi, lascia attoniti per l’enorme divario tra l’immagine attuale del Dragone, tutto grattacieli, tecnologia, industrie colossali, infrastrutture avveniristiche, e quella nazione povera, rurale, quieta e orgogliosa che emerge dalle sequenze del film.

La storia di Chung Kuo, Cina (disponibile gratis su RaiPlay) è affascinante come il suo esito. La Rai di Furio Colombo, responsabile all’epoca dei programmi culturali, chiede a Pechino il permesso di girare un documentario sulla nuova Cina post-Rivoluzione. Dopo una certa attesa, l’autorizzazione viene accordata, e Pechino invita Antonioni a realizzare l’opera. Nella primavera del ’72 l’autore di L’avventura parte con pochi collaboratori: tra gli altri il giornalista Andrea Barbato, il direttore della fotografia Luciano Tovoli, la giovanissima aiuto regista Enrica Fico, che in seguito sposerà il regista.

Fin dall’esordio il progetto si rivela complicato. A Pechino i desideri di Antonioni si scontrano con la realtà. L’intento era di girare in libertà per più mesi: le autorità replicano, dopo lunghe trattative, concordando con il regista un itinerario rigidamente prefissato, da compiere in sole tre settimane. Ma l’incomprensione è a monte, irrisolvibile. Se il premier Zhou Enlai aveva consentito l’ingresso della troupe come gesto di apertura (il 1972 è l’anno della storica visita di Nixon e dell’intensificarsi delle relazioni diplomatiche con le nazioni occidentali), l’equivoco era, probabilmente, nei presupposti dell’invito. La Cina si attendeva, fidando in un regista ritenuto “affidabile”, un grande affresco di esaltazione della Rivoluzione e delle sue conquiste, che restituisse al mondo l’immagine di una Cina rinnovata, moderna, proiettata verso il futuro, con al centro un popolo liberato per sempre dalla disuguaglianza e dal privilegio.

Ma Antonioni non è un propagandista. Non ha alcun pregiudizio verso la nuova Cina, ma intende mostrarla come la vede, filtrata dal suo sguardo e dai suoi interessi. E pur accettando un percorso predeterminato, non rinuncia a forzare la mano: di tanto in tanto improvvisa deviazioni dalle strade stabilite, si ferma in villaggi o mercati al di fuori del programma ufficiale, e anche durante le tappe programmate non segue i dettami degli organizzatori, filmando tutto ciò che lo incuriosisce. Il centro della sua attenzione, per ammissione esplicita, non sono né le grandi opere, né l’organizzazione, né il modello economico-sociale, ma le persone: il popolo con i volti, i gesti, le consuetudini, il lavoro. Si accennava che guardare oggi Chung Kuo, Cina è straniante. Siamo talmente abituati a identificare questa nazione con megalopoli di vetro e acciaio, treni ad altissima velocità, milioni di abitanti alla rincorsa di un tenore di vita sempre più elevato, che la Cina di Antonioni può sembrarci lontanissima. Chung Kuo (che significa appunto “Cina”) ci rivela un Paese ancora profondamente agricolo, povero, legato a modi di vita arcaici. Pechino appare come una città inondata di biciclette, con rare automobili, ricca di vicoli e schiere di casette a corte tradizionali, strade sterrate, carri. I villaggi sono modesti, il lavoro è duro e ancora largamente praticato con metodi tradizionali. Non c’è miseria né disperazione: il popolo appare sereno, orgoglioso di appartenere a una società nuova di cui si sente il propulsore.

Sarebbe vano cercare in Chung Kuo giudizi politici netti: opera di compromesso, non affronta direttamente le contraddizioni e le tragedie di un cammino segnato anche da violenza e sopraffazione, esecuzioni sommarie e soppressione delle libertà. Lo sguardo non vuole essere quello dell’Occidente che giudica, comparando il sistema cinese al proprio. La critica, semmai, è sussurrata per inciso. I testi del documentario abbondano di accenni, anche ironici, alla mancanza di autonomia della troupe, agli inflessibili accompagnatori cinesi, al dibattito pubblico a senso unico; il commento agli esiti della Rivoluzione Culturale evidenzia come, per far carriera, abbia contato più la fedeltà politica che la competenza; i bimbi a scuola non cantano, si sottolinea, altro che canzoni politiche, marciano accompagnati da melodie patriottiche.

Nello stile di Chung Kuo, ciò che irretisce è la distanza: non solo dall’immaginario relativo alla Cina di oggi, ma dalle modalità narrative cui siamo abituati. Se il film fosse una partitura, la sua chiave sarebbe nell’ampiezza delle pause, dei lunghi silenzi, intervallati da una voce narrante tra le più belle del cinema italiano, Peppino Rinaldi, il doppiatore di Paul Newman e Jack Lemmon, capace di adeguarsi con assoluta naturalezza alla sobrietà di un testo sintetico, piano ed elegante. Una voce serena e concisa per interrompere brevemente silenzi che, in realtà, tali non sono: perché tutte le parti senza parlato sono accompagnate dal suono in presa diretta, un fruscio incessante di voci, attrezzi, motori, rumori della natura, la vera colonna sonora del film, ben più dei rari interventi musicali curati da Luciano Berio. È questa lentezza ammaliante, questo dare spazio alle sonorità dei villaggi, delle metropoli, delle campagne a rendere Chung Kuo un’opera senza tempo, e a permettere, a chi accetti di lasciarsi cullare da questo calmo flusso acustico e visivo, di immergersi nella Cina pre-Deng vivendo in prima persona atmosfere così autentiche; e poco importa se alcuni set (come il ristorante di Suzhou) fossero pianificati nei dettagli, prima delle riprese, dai funzionari cinesi. Lo sguardo di Antonioni indugia sui visi, sulla quotidianità di movimenti e abitudini: i contadini partecipano ai dibattiti politici, i pensionati si esercitano nel tai chi, gli operai si avvicendano in fabbrica, i bimbi leggono in coro nella scuola del villaggio. Una visione che non può, e non avrebbe potuto, restituirci voci apertamente critiche, ma che agli occhi dei cinesi fu abbastanza antiretorica e cruda da suscitare la condanna totale da parte del regime.

Persino nei pochi momenti in cui Antonioni distoglie lo sguardo dalle persone e lo rivolge a qualche infrastruttura, qualche grande opera, la sua visione è incidentale, veloce, e questo sarà uno dei maggiori motivi di risentimento dei committenti. Emblematiche sono le rapide riprese del Canale artificiale Bandiera Rossa a Linzhou, o quelle dell’enorme ponte sul fiume Yang-Tze Kiang a Nanchino, effettuate dal regista dal basso, di traverso: modalità narrative che offenderanno a morte i cinesi, convinti che si trattasse di un modo consapevole e malevolo di sminuire i risultati della Rivoluzione.

Chung Kuo è trasmesso dalla Rai all’inizio del ’73, e viene distribuito in molti paesi all’estero. L’anno successivo il Quotidiano del Popolo di Pechino, organo del Partito Comunista, pronuncerà una condanna senza appello: il film viene definito “anticinese” e additato per aver colpevolmente presentato un’immagine della Cina come nazione arretrata e indigente, senza sottolineare le realizzazioni dell’industria e dell’agricoltura pianificate e i successi del popolo. Il documentario viene bandito dalla Cina per oltre trent’anni, fino al 2004, quando avverrà la prima proiezione pubblica a Pechino.

Chung Kuo è una testimonianza unica della Cina che precede la nuova rivoluzione, quella di Deng Xiaoping, con la trasformazione del paese in superpotenza economica e politica. Eppure vale anche oggi, in un certo senso, il monito che si ascolta nelle prime battute del film: “Arrivando dall’Europa immaginavamo di scalare montagne, attraversare deserti, ma la Cina è ancora in gran parte inaccessibile e proibita”. Cinquant’anni dopo, la Cina è divenuta un colosso che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. Ma per l’Occidente continua ad essere aliena, a causa della fragile muraglia difensiva che tentiamo di erigere contro un’espansione politico-economica che sembra, ormai, inarrestabile.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012