SCIENZA E RICERCA

Climate change: l'importanza della percezione

L’essere umano si sta adattando al cambiamento climatico. Secondo uno studio recente, pubblicato su Pnas (Proceedings of the National Academy of Science) sarebbe proprio così. Ma non nella concezione corretta del termine: noi uomini infatti non stiamo aumentando la nostra percezione del rischio rispetto al climate change in atto, il che sarebbe un fattore per forza di cose positive. Al contrario: ci stiamo abituando a questa “narrazione”, rendendoci immuni dal comprendere la portata, nel breve periodo, di quanto stia realmente accadendo

Sono questi i risultati dello studio firmato da Frances Moore del Department of Enviromental Science and Policy dell’università della California. La ricerca prende come oggetto di studio solo gli Stati Uniti, analizzando le condizioni meteorologiche americane negli ultimi anni e due miliardi di post sui social network americani. In breve: viene dimostrato come la percezione di un cambiamento non riguardi periodi di tempo ampi (nell’ordine di un paio di secoli, ma nemmeno degli ultimi 50 anni), ma solo periodi ristretti (molto): al massimo di 7-8 anni. Ciò significa che l’uomo, climaticamente parlando, è in grado di correlare eventi meteorologici e la loro gravità entro una finestra temporale molto piccola. Un esempio? Sappiamo che negli ultimi due secoli i cambiamenti climatici sono stati intensi: la temperatura media è aumentata di 1,1 gradi centigradi. D’altra parte, nell’ultimo decennio il picco è stato meno intenso: la temperatura è salita di al massimo 0,1 gradi centigradi all’anno. Ecco, l’uomo, secondo i risultati dello studio, avrà una percezione praticamente nulla del cambiamento avvenuto nell’ultimo decennio, considerando, soggettivamente ed entro pochi anni, come “normali” condizioni che su una scala globale e temporale sono tutto tranne che normali. 

Sembrerebbe una questione di lana caprina, ma non è così: se la percezione è così bassa (al limite dello zero come dicevamo), allora ci sono relativamente poche speranze che la società (nel suo complesso) possa farsi carico proattivamente del problema e contrastare con politiche valide il cambiamento climatico in atto. 

Per spiegarlo viene in aiuto la valutazione del rischio, composta da tre fattori oggettivi:

  1. La probabilità che un evento possa avvenire.
  2. L’esposizione al rischio.
  3. La vulnerabilità.

Questi tre fattori sono fondamentali per predisporre piani, per esempio, di evacuazione o di intervento per ridurre il secondo e il terzo fattore. Si pensi a un’azione sistematica per costruire o ristrutturare edifici in funzione anti-sismica. Ma, collegati a questi fatti – lo ripetiamo: oggettivi – c’è poi la percezione soggettiva di quanto può accadere attorno a noi: un piano di evacuazione sarà meno efficace se la popolazione soggetta alla possibile mobilitazione non sarà consapevole (e quindi incline a crederci) del latente pericolo a cui è sottoposta. Se rapportiamo questo esempio alla percezione (pressoché nulla) del cambiamento climatico su una scala temporale breve ecco che si capisce come si tratti di un grosso problema. Dopotutto, riguardo al climate change i tre fattori sono tutti noti: il primo fattore di rischio è rappresentato dalla consapevolezza dell’aumento della temperatura. L’esposizione è altissima, visto che riguarda l’intera popolazione umana e la vulnerabilità è elevata, anche se con dei distinguo dovuti alle vaste aree geografiche a cui ci si riferisce. 

Ma se la percezione è bassa? I cambiamenti climatici non ci troveranno (e non ci trovano) preparati ad agire: saremo (siamo) indifesi. Ecco allora che è il caso di ascoltare gli appelli degli scienziati di tutto il mondo e anche di chi, dal basso, cerca di svegliare l’opinione diffusa su questo problema che rischia di arrivare a un punto di non ritorno, velocemente. 

Allora ringraziamo Greta Thunberg, la ragazza svedese di 16 anni, che grazie ai suoi sforzi e a quelli di migliaia di giovani come lei, sta dando la scossa ai dormienti di tutto il mondo.   

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