SOCIETÀ

Covid-19: il digitale ci ha salvato ma deve essere "riformato"

Con la pandemia molti italiani si sono improvvisamente trovati in una società digitale in cui si lavora, si fanno acquisti e ci si relaziona attraverso uno schermo. Per molti un sogno, per altri un incubo; altri ancora semplicemente finora non ci avevano pensato. “Il digitale era già importante, oggi è diventato tutto. Questa pandemia sarà ricordata come un tornante di civiltà”: non ha dubbi Michele Mezza, ex giornalista Rai a lungo inviato all’estero, studioso di nuovi mass media e tecnologie digitali nonché docente di Marketing e new media presso l'università Federico II di Napoli.

Oggi la rete è l’unica potenza comparabile con il virus per diffusione e velocità”, continua Mezza. Considerando tra l’altro che Coronavirus e internet riguardano la stessa quota di umanità: “I quattro miliardi di persone investiti prioritariamente dal contagio sono esattamente gli stessi che hanno dimestichezza con la rete. Una coincidenza su cui si dovrà indagare perché non può essere un dato puramente occasionale”.

Digitale e pandemia in tre punti

Tre sono le caratteristiche che, secondo il giornalista e studioso, rendono la dimensione digitale fondamentale in questo tempo di pandemia: la simmetria dinamica rispetto al virus, la capacità di contrapporsi ad esso e il modo in cui ridisegna la nostra società. Cominciamo dal primo aspetto: “L’altro giorno Alessandro Vespignani, che in queste settimane si è dimostrato uno dei più brillanti epidemiologi – e non a caso non è un medico ma un fisico – ci ha spiegato come le dinamiche e la stessa relazione che il virus instaura con i suoi ospiti e i serbatoi siano esattamente equivalenti a quelle degli sciami digitali, che in questi anni ci siamo abituati a conoscere e ad analizzare”.

Una caratteristica che apre la strada alla seconda: “Il digitale, specificatamente nella sua componente di calcolo computazionale, è fondamentale anche per combattere il virus. In Cina, e via via in tutte le realtà che il Coronavirus ha incontrato nella sua trasmigrazione da est verso ovest, abbiamo visto che la reazione delle autorità è efficace solo quando comporta l’identificazione del fenomeno e la sua ‘recinzione’, mediante sistemi di tracciamento prima e di intelligenza artificiale poi”. Infine c’è il terzo e ultimo punto: “In piena quarantena l’unico sistema a salvaguardare le relazioni umane, canalizzandole e impaginandole in nuovi moduli semantici, è stato il digitale, in cui tutti ci siamo ritrovati e attraverso cui tutti noi abbiamo riclassificato le nostre attività”.

Una dimensione quindi sempre più fondamentale per l’economia e la società, riguardo la quale resistono però nel nostro Paese sacche importanti di arretratezza. Secondo l’Istat nel periodo 2018-2019 il 33,8% delle famiglie (il 41,6% nel Mezzogiorno) non aveva computer o tablet in casa, mentre appena il 22,2% ne aveva a disposizione uno per ogni suo componente. Persino tra gli adolescenti due su tre hanno competenze digitali basse o di base.

Una situazione in cui però Michele Mezza vede anche note inaspettatamente positive: “Rispetto alla vulgata che voleva l’Italia agli ultimi posti in tutte le classifiche digitali devo dire che la reazione è stata di abbondante sufficienza, se non quasi ottima. E questo non deve sorprendere perché questo Paese, al di là dei luoghi comuni, è sempre stato considerato una potenza in campo digitale: siamo stati tra i primi a sperimentare la riforma del sistema televisivo negli anni ‘80 e della telefonia mobile negli anni ‘90, e ancora oggi siamo tra i primi tre Paesi in Europa nella produzione e sviluppo di app”. Secondo il giornalista “l’Italia digitale c’è. L’incognita vera su cui ragionare è come verranno gestiti, governati e orientati gli adattamenti strutturali di queste esperienze occasionali. Come cioè l’e-learning, lo smart working e tutta la riclassificazione digitale delle attività sociali potranno diventare ordinari e non più solo emergenziali”.

Il buco nero dei Big Data

La vera questione semmai è quella dei Big Data, secondo Michele Mezza “un vero e proprio un buco nero. Abbiamo pagato un tributo terribile all’impreparazione e all’incapacità di utilizzare i dati che avevamo, e che potevano dirci in anticipo quello che sarebbe successo, e la responsabilità di questo un giorno sarà messa in conto alle istituzioni e alle comunità intellettuali, a cominciare dalle università”. Un ‘buco nero’, quello del rapporto tra informazioni e potere, su cui lo studioso si è soffermato nel libro Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto (Donzelli 2018) e che è da risolvere quanto prima, non tanto per recriminare sul passato quanto per guardare al futuro: “La capacità di calcolare, quindi di analizzare e prevedere comportamenti è oggi sempre più decisiva per le attività sociali. Questo pone il tema cruciale della condivisione e della negoziabilità delle informazioni sulla rete, dei database dei grandi service provider come quello che stiamo utilizzando per fare questa intervista. Su questo punto l’Italia e l’Europa dovrebbero cercare di recuperare terreno rispetto a un’inerzia che finora si è rivelata mortale”.

L’esempio in questi giorni è proprio sotto ai nostri occhi: “Trovo abbastanza singolare che un’istituzione come governo italiano abbia pensato di buttarsi a capofitto in un campo come quella delle app, ignorando completamente la possibilità di pretendere da Google, Facebook e Amazon, non dico l’accesso ai database – come sarebbe comunque normale in un’emergenza sanitaria – ma almeno report puntuali su parole chiave, ricerche e andamenti semantici, estremamente utili per capire come si muovano il virus e le persone portatrici”.

Dal fuoco alla fabbrica, ogni avanzamento tecnologico è sempre stato occasione di concentrazione del potere

Sta di fatto che da una visione di internet come luogo di libertà e di condivisione, si è arrivati in questo inizio millennio a una situazione in cui le grandi piattaforme sono concentrate in poche mani. Una questione che però, secondo Michele Mezza, andrebbe rovesciata: “Perché mai internet avrebbe dovuto essere per se stessa terra di libertà? Quale tecnologia al mondo lo è stata in maniera spontanea? Nessuna: dal fuoco alla fabbrica, ogni avanzamento tecnologico è sempre stato occasione di concentrazione del potere. Fino a quando l’intervento di altri interessi contrapposti, mediante una dialettica negoziale e conflittuale, ha costretto i concentratori a decentrare e la tecnologia ad assumere forme sociali e sostenibili”.

Quello che insomma è mancato finora è una presa di coscienza da parte dei singoli e delle comunità dell’importanza fondamentale dei Big Data. Adesso però, anche a causa della pandemia, tutto potrebbe cambiare: “A partire da una constatazione, che è quella abbiano sperimentato in queste terribili settimane: senza dati si muore. E se i dati sono condizione e presupposto della sicurezza della società per ciò stesso, senza necessariamente arrivare ad assurde forme di espropriazione, non possono essere patrimonio esclusivamente privato. Del resto anche sanità, scuola e gli stessi farmaci nascono come proprietà private e solo in seguito diventano beni comuni. Lei pensa che un futuro vaccino contro il Coronavirus potrà essere distribuito solo in base a mere ragioni di speculazione economica? Sarebbe ridicolo solo pensarlo”.

Senza dati si muore: non possono essere patrimonio esclusivamente privato

Qualcosa insomma si sta muovendo. “Si cominciano ad intravvedere alcuni soggetti negoziali – spiega Mezza –: a partire dalle città, che cominciano a porsi il problema di usare i Big Data per la propria governance. Londra ad esempio ha aperto un negoziato durissimo con Uber per la condivisione dei dati sulla mobilità, mentre Copenaghen ha municipalizzato il loro commercio, rendendolo pubblico e trasparente pur senza contestarne la proprietà”.

Sul punto il giornalista cita il presidente di Microsoft Brad Smith, recentemente schieratosi a favore della ‘democratizzazione’ dei dati. “Certo, evidentemente conta il fatto che Microsoft non abbia un modello di business centrato su questo – conclude il Mezza –. Ma se ad ammetterlo è l’azienda il cui marchio è l’emblema della capacità di rendere privato ciò che è pubblico, la stessa che con la famosa lettera firmata da Bill Gates nel 1976 ha privatizzato il software, allora significa che sul punto il senso comune sta davvero cambiando”.

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