SOCIETÀ
Filippine, la Cina irrompe nella complicata agenda del presidente Marcos Jr
Una nave di pattuglia cinese avvistata nelle acque territoriali filippine. Foto: Reuters
Un potentissimo raggio laser militare è stato sparato da una nave cinese contro l’equipaggio di un pattugliatore d’altura filippino, la “BRP Malapascua”, in servizio nel Mar Cinese Meridionale. L’incidente, che risale al 6 febbraio scorso, è finito lì, con l’equipaggio che si trovava sul ponte della nave filippina rimasto “temporaneamente accecato”: nessuno ha riportato altre ferite, nessuna collisione tra le due imbarcazioni, anche se la Guarda Costiera filippina ha denunciato “manovre pericolose” da parte dei cinesi (si sarebbero avvicinati zigzagando a circa 137 metri per intralciarne la rotta). Eppure l’episodio è di estrema gravità per almeno due motivi: le armi laser progettate per danneggiare la vista sono vietate dalla convenzione delle Nazioni Unite. Inoltre l’incidente non è avvenuto in acque internazionali, ma all’interno della zona economica esclusiva (ZEE) delle Filippine, a ridosso di Second Thomas Shoal (i filippini lo chiamano Ayungin Shoal), un atollo delle isole Spratly, a circa 105 miglia nautiche a nord-ovest della provincia di Palawan (la ZEE, come stabilisce la Convenzione sul diritto del mare, si estende per 200 miglia nautiche). La “Malapascua” era in missione per portare rifornimenti a uno sparuto gruppo di soldati delle Filippine, che vive a bordo della “Sierra Madre”, una vecchia nave arrugginita della seconda guerra mondiale (veniva utilizzata dagli Stati Uniti per lo sbarco dei carri armati) arenata lì di proposito nel 1999 proprio per farne un avamposto di difesa. Alla Cina, che ha già occupato militarmente diverse isole nell’area e che rivendica in barba ai trattati internazionali una “sovranità di fatto” sul Mar Cinese Meridionale, quella presenza non va giù. E da anni tenta d’infastidire, d’intimidire le forze armate filippine con azioni di disturbo palesemente illegali. Già alla fine del 2021 tre navi della Guardia Costiera cinese attaccarono, quella volta con cannoni ad acqua, le due imbarcazioni civili che all’epoca si occupavano della consegna dei rifornimenti alla guarnigione. Ne seguirono proteste formali. L’incarico fu poi affidato a navi militari, in grado di difendersi da eventuali attacchi. Ma la situazione, com’è evidente, non ha fatto passi in avanti.
The Japanese Embassy in Manila on Tuesday said there is no specific plan yet on a South China Sea joint patrol with the Philippines, the United States, and Australia but Tokyo will “explore” possible maritime cooperation to secure the Indo-Pacific region.https://t.co/7ZxFINtMqC
— Philippine News Agency (@pnagovph) March 1, 2023
L’attuale presidente delle Filippine, Marcos Jr, figlio omonimo dell’ex dittatore Ferdinand Marcos (morto in esilio nel 1989), stavolta ha alzato la voce: a differenza del suo predecessore Rodrigo Duterte non ha alcuna intenzione di finire tra le braccia di Pechino. E in una recente visita alla base aerea di Lapu-Lapu ha pronunciato un discorso dai toni gravi: «I confini del nostro paese sono stati messi in discussione. Le nostre forze armate, l’esercito, l’aeronautica, la marina, devono concentrarsi urgentemente sulla protezione dell’integrità territoriale. Per molti anni siamo stati in grado di mantenere la pace e il dialogo con tutti i nostri vicini. Ora le cose hanno iniziato a cambiare e dobbiamo adattarci di conseguenza». Il timore di Marcos Jr è che le Filippine possano diventare un terreno di scontro tra le superpotenze, tra Usa e Cina. «La questione del Mar Cinese Meridionale mi tiene sveglio la notte, mi tiene sveglio durante il giorno, mi tiene sveglio la maggior parte del tempo», aveva confessato al presidente del World Economic Forum, nel recente vertice tenuto a Davos. «Le Filippine stanno affrontando una situazione estera più complicata del conflitto tra Russia e Ucraina». Oltre alla Cina e alle Filippine, anche Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan hanno rivendicazioni sovrapposte in quel tratto di mare, strategico da un punto di vista sia militare sia commerciale.
Pattugliamenti congiunti con Stati Uniti, Australia e Giappone
Sono 77 finora, e già 10 quest’anno, le proteste formali contro la Cina presentate dal Dipartimento degli Affari Esteri del governo filippino per denunciare la “presenza illegale” di militari cinesi nelle acque di competenza territoriale delle Filippine. La Cina da parte sua respinge le accuse, invocando la legge del 2021 sulla guardia costiera che di fatto autorizza le navi della Guardia Costiera a utilizzare “tutti i mezzi necessari” per fermare o prevenire minacce da parte di navi straniere. Una legge che viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin è arrivato a dichiarare che la guardia costiera del suo paese ha agito in modo “professionale e sobrio” nei confronti della nave filippina. Questione di punti di vista, ma non di diritto. Il Global Times, quotidiano ufficiale del Partito Comunista cinese, ha pubblicato pochi giorni fa un editoriale dal titolo “La provocatoria, irresponsabile, dirompente acrobazia della Marina degli Stati Uniti nel Mar Cinese Meridionale”, denunciando le “provocazioni di Washington”. Da anni la Casa Bianca lancia avvertimenti a Pechino sulle “conseguenze della militarizzazione di quel tratto di mare”, senza ottenere risultati. Entro pochi giorni dovrebbero riprendere i negoziati tra Cina e Asean (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) per definire un codice di condotta condiviso per il Mar Cinese Meridionale. In realtà i colloqui vanno avanti dal lontano 2002 senza che si sia mai arrivati a un accordo: in molti accusano la Cina di ritardare intenzionalmente il processo, per rinforzare le “zone grigie” e poter trattare da posizioni di maggior forza. Siamo sempre lì, al solito, estenuante braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti. Ed è per questo che il presidente Marcos ha deciso di schierarsi con maggiore nettezza rispetto al passato, chiedendo non propriamente aiuto, ma una più stretta “collaborazione” ai suoi alleati storici: soprattutto Stati Uniti, ma anche Australia e Giappone. Secondo l’ambasciatore filippino a Washington, Jose Manuel Romualdez, queste nazioni potrebbero partecipare a “pattugliamenti congiunti” nel Mar Cinese Meridionale. Anche il ministro della Difesa australiano, Richard Marles, ha confermato che colloqui, in tal senso, sono in corso. Peraltro: lo scorso anno anche l’Australia aveva denunciato che una nave della Marina cinese aveva puntato un raggio laser contro uno dei suoi aerei militari, in perlustrazione nel Mare degli Arafura, all’interno della ZEE australiana. Il presidente Marcos Jr ha da poco approvato una più ampia presenza militare statunitense nelle Filippine, autorizzando la presenza stabile di contingenti Usa in quattro campi militari filippini. Come dire (ai cinesi): se oserete toccarci i nostri alleati interverranno. Ma Pechino continua a mostrare i muscoli, com’è sua abitudine, richiamandosi alla “linea a nove trattini”, una mappa del 1946, redatta dal governo nazionalista di Chiang Kai-shek, dalla quale risulterebbe una “sovranità” su un’ampia zona di quel mare. Nel 2016 la Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha emesso una sentenza che non lascia dubbi: la pretesa della Cina non ha alcuna base nel diritto internazionale. La linea a nove trattini sarebbe peraltro il risultato di un errore cartografico.
Ma la tensione, e l’attenzione internazionale su quel che accade in quel tratto di mare, resta altissima. È lì che si gioca anche la partita di Taiwan, con la Cina che pretende “sovranità” sulla base di sue convinzioni personali e gli Stati Uniti a guidare il fronte opposto, a difesa dell’autonomia dell’isola (il Dipartimento di Stato americano ha appena approvato un’ulteriore vendita di armi a Taiwan, compresi 619 milioni di dollari di munizioni per i caccia F-16). Anche l’Unione Europea tiene alta l’attenzione: dopo l’incidente con il raggio laser, il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock ha detto che «le tensioni nel Mar Cinese Meridionale dovrebbero essere risolte sulla base del diritto internazionale». Sembra un’ovvietà, ma non lo è. «Il vostro paese – ha proseguito Baerbock incontrando Enrique Manalo, segretario per gli Affari Esteri del governo delle Filippine - si trova in una regione con pericolose tensioni politiche che potrebbero esplodere in qualsiasi momento. L’Indo-Pacifico è una, se non “la”, regione in cui sarà deciso l’ordine internazionale del 21° secolo». Manalo ha tenuto a ribadire che «le Filippine continueranno a seguire la strada della diplomazia e del dialogo pacifico nella risoluzione delle loro controversie».
Le spine di Marcos Jr: prigionieri politici e libertà di stampa
La disfida sui confini con la Cina non è l’unica “spina” nell’agenda del governo filippino. Marcos Jr deve fronteggiare diverse criticità interne.
La scorsa settimana oltre 1400 manifestanti pro-democrazia, alcuni dei quali sopravvissuti al periodo della legge marziale, hanno manifestato a Manila, con striscioni con su scritto “non dimenticare mai”, nell’anniversario della rivolta popolare (sostenuta dall’esercito) che nel 1986 cacciò il dittatore Ferdinand Marcos e sua moglie Imelda, genitori dell’attuale presidente. Marcos Jr si è limitato a rilasciare una dichiarazione generica e assai prudente: «Offro ancora una volta la mia mano di riconciliazione a coloro che hanno diverse convinzioni politiche per forgiare insieme una società migliore, che perseguirà il progresso, la pace e una vita migliore per tutti i filippini». Marcos Jr non si è mai scusato per nessuna delle atrocità commesse dal padre durante il periodo della legge marziale, né per i milioni di persone scomparse sotto la sua dittatura. «La riconciliazione può avvenire solo quando c’è giustizia» - ha dichiarato Renato Reyes, segretario generale del partito di sinistra Bagong Alyansang Makabayan. «Senza un riconoscimento significativo degli abusi del passato non può esserci una vera riconciliazione». Ma il rispetto dei diritti individuali e della libertà d’espressione sono ancora oggi un problema, al punto che l’alleanza nazionale delle donne Gabriela e il gruppo sindacale Kilusang Mayo Uno hanno rinnovato il loro appello per il rilascio di sindacalisti e prigionieri politici, che si sono battuti per salari più alti e opportunità di lavoro dignitose per tutti. «I sindacalisti e i prigionieri politici incarcerati semplicemente per aver espresso le loro convinzioni devono essere immediatamente liberati». Secondo il sito d’informazione Rappler, nel 2022 i prigionieri politici detenuti nelle carceri filippine erano 803. Peraltro: la riforma carceraria è uno dei punti più critici che il governo filippino è chiamato ad affrontare. «Molte delle carceri del paese non riescono a soddisfare gli standard minimi delle Nazioni Unite, dato il sovraffollamento, il cibo inadeguato e le scarse condizioni igieniche», scrive Human Rights Watch nel suo ultimo report, pubblicato lo scorso anno. Ma la ong lancia altre accuse al governo di Manila: «Le autorità filippine continuano a usare il “red-tagging” (letteralmente “segnare in rosso”) e altre forme di minacce e violenze per intimidire i leader indigeni e gli attivisti che si oppongono ai progetti sostenuti dal governo nelle Filippine», ha dichiarato nel gennaio scorso HRW. Tra i progetti maggiormente contestati, la costruzione di una diga nella catena montuosa della Sierra Madre. Chi si oppone è accusato di essere “sostenitore dell'insurrezione comunista”, il che li rende potenziali obiettivi delle forze di sicurezza governative. E non va meglio sul tema della libertà di stampa, che l’attuale presidente filippino “disprezza”, come denunciava sempre HRW lo scorso anno. Lo scorso gennaio la giornalista Maria Ressa, co-fondatrice del sito web d’informazione Rappler, vincitrice nel 2021 del premio Nobel per la pace, insieme al giornalista russo Dmitry Muratov, “per i loro sforzi per salvaguardare la libertà di espressione, che è un prerequisito per la democrazia e la pace duratura”, è stata assolta dall’accusa di evasione fiscale. «Oggi vincono i fatti, vince la verità, vince la giustizia», ha dichiarato la giornalista, che ha parlato di “accuse politiche” nei suoi confronti. Ressa e Rappler devono affrontare ancora tre processi, tra i quali un appello alla Corte Suprema per contestare una condanna per diffamazione a 6 anni di carcere. La giornalista è attualmente in libertà su cauzione.
L’ultima emergenza non politica: è il rischio di disastro ambientale in seguito all’incidente che martedì scorso ha coinvolto la petroliera Princess Empress, che trasportava 800mila litri di petrolio industriale, affondata al largo dell’isola di Romblon, a causa del mare estremamente mosso e di motori in avaria. L’equipaggio è stato salvato, ma ora si teme che il gasolio fuoriuscito possa danneggiare irreparabilmente le spiagge limitrofe e l’ecosistema marino, comprese le barriere coralline.