L'incontro tra le delegazioni cinesi e delle Isole Solomone. Foto: Reuters
Un nuovo fronte dello scontro strategico, militare e commerciale tra Cina e Stati Uniti si sta aprendo dall’altra parte del mondo, nel Pacifico meridionale. Perché il governo delle Isole Salomone, inquieta nazione-arcipelago composta da un migliaio di isole di varie dimensioni, circa 1.500 km a est della Papua Nuova Guinea, ex protettorato inglese fino all’indipendenza proclamata nel 1978, ha appena firmato con Pechino un “accordo di sicurezza” quinquennale, con rinnovi automatici, che prevede l’invio di forze militari e di polizia “per mantenere l’ordine sociale e proteggere vite”, oltre alla possibilità per le navi da guerra cinesi di attraccare nei porti dell’arcipelago “per eseguire rifornimenti logistici”. Un accordo che il primo ministro Manasseh Sogavare, nel corso di un’udienza in Parlamento, ha definito “necessario”: «Intendiamo rafforzare la nostra capacità di far fronte a qualsiasi futura instabilità, nella speranza che non ci sarà mai richiesto di invocare nessuno dei nostri accordi di sicurezza bilaterali». Gli Stati Uniti e la vicina Australia (che dista meno di 2.000 km) non l’hanno presa bene. Washington ha immediatamente inviato a Honiara, capitale dello Stato, sull’isola Guadalcanal (dove nel 1942, ottant’anni fa, si svolse una drammatica battaglia tra Alleati e giapponesi, raccontata anche da Terrence Malick nel film “La sottile linea rossa”), una delegazione diplomatica ad alto livello (ne ha fatto parte anche l'alto funzionario del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, Kurt Campbell) proprio per “marcare il territorio” e ribadire di persona le preoccupazioni per la firma del patto, che nel peggiore degli scenari spianerebbe la strada alla costruzione di una base navale militare cinese. Sogavare ha negato, garantendo che l’accordo ha implicazioni “esclusivamente interne”. Ma si sa: in certi casi, e con certi partner, la fiducia è materia che va pesata. L’ambasciatore Daniel Kritenbrink, assistente del Segretario di stato americano per gli affari dell'Asia orientale e del Pacifico, presente all’incontro, l’ha poi spiegata così: «Abbiamo rispetto per la sovranità delle Isole Salomone, ma volevamo anche far loro sapere che se si fossero presi provvedimenti per stabilire una presenza militare permanente de facto, o un'installazione militare, allora avremmo avuto preoccupazioni significative: a quel punto saremmo costretti a rispondere in modo molto naturale». Traduzione: una sola mossa e interverremo militarmente. Quasi contestualmente il primo ministro australiano Scott Morrison aveva sostenuto che l’eventuale costruzione della base cinese sarebbe stata considerata «una linea rossa, per noi e per gli Stati Uniti».
Solomon Islands PM Manasseh Sogavare blasts Australia over criticism of China security deal https://t.co/9L8WqJyFQp
— ABC News (@abcnews) April 29, 2022
Tensioni etniche e tentacoli cinesi
Le simpatie filocinesi del primo ministro Sogavare non sono una novità: già nel 2019 il suo governo aveva disconosciuto Taiwan (dopo 36 anni di collaborazione) per assecondare i desideri di Pechino. Decisione che peraltro aveva scatenato internamente contestazioni e disordini, sfociate lo scorso novembre in una violenta insurrezione, con incendi e saccheggi nella capitale, con quattro vittime, aziende assaltate nella locale Chinatown e perfino un tentativo di assalto del Parlamento, al punto che il premier era stato costretto a chiedere aiuto all’Australia, che aveva inviato truppe armate per riportare la calma. All’origine degli scontri, oltre al cambio di rotta in politica estera, da Taipei a Pechino (in cambio del quale il governo delle Isole Salomone avrebbe ricevuto 730 milioni di dollari di aiuti) c’è anche una profonda spaccatura tra il governo centrale e gli abitanti dell’isola di Malaita, la più popolosa dell’arcipelago, in stragrande maggioranza separatisti e oppositori di Sogavare, che non vuol concedere loro il referendum per ottenere l’indipendenza. Tensioni etniche e politiche che risalgono alla fine degli anni ‘90, quando gli scontri tra abitanti delle diverse isole si trasformarono in conflitto armato. Fino alla sigla dell’accordo di pace di Townsville, nel 2000 (anche allora premier era Sogavare), mai però completamente attuato. Brace mai spenta sotto le ceneri, al punto che nel 2003 venne istituita la “Missione di assistenza regionale delle Isole Salomone” (RAMSI), una partnership tra il governo delle Isole e quindici paesi della regione del Pacifico. Le missioni di pace che negli anni si sono susseguite sono sempre state guidate dall’Australia. Che alla dismissione della RAMSI, nel 2017, siglò un proprio “accordo di sicurezza” con le Isole Salomone, che oggi Sogavare giura di voler rispettare: «L’Australia rimane il nostro partner preferito e non faremo nulla per minare la sicurezza nazionale australiana. Siamo amici di tutti e nemici di nessuno».
Ma la questione è assai più complessa di come la descrive il primo ministro delle Isole Salomone. Perché la variabile è la Cina e le sue mire espansionistiche, al netto del solito paravento delle partnership commerciali dietro le quali potrebbero nascondersi precise strategie geopolitiche, come quelle stabilite dalla Belt and Road Initiative, la gigantesca rete infrastrutturale lanciata nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping che disegna rotte terrestri e marittime in ogni angolo del mondo, attraverso la costruzione (diretta o indiretta) di porti, ferrovie, dighe, strade, centrali idroelettriche. L’operazione Salomone è una sfida: la prova che Pechino vuole entrare con tutti e due i piedi nel Pacifico, zona d’influenza privilegiata degli Stati Uniti. E a quanto pare, lentamente, con pazienza, ci sta riuscendo. Già dal 2018 si parla di una possibile apertura di una base militare cinese nell’arcipelago delle Vanuatu, un’altra nazione del sud Pacifico, a sud-est delle Salomone. Nel 2020 la Papua Nuova Guinea ha firmato un memorandum con una società cinese per la costruzione di un “parco industriale della pesca multifunzionale” da 200 milioni di dollari sull'isola di Daru. Lo scorso anno è trapelato che Pechino aveva deciso di finanziare la ristrutturazione della pista d’atterraggio di Kiribati, un agglomerato di atolli e isolette, circa tremila chilometri a sud-est delle Hawaii (dunque a un passo dal territorio Usa). Fonti cinesi garantiscono che l’aeroporto avrà esclusivamente uso civile: ma chi si fida?
Uno “schema Gibuti” nel Pacifico
Il vero timore è che Xi Jinping stia cercando di replicare nel Pacifico lo “schema Gibuti”, dall’operazione condotta nel 2016 nel piccolo stato del Corno d’Africa, dove si trova l’unica base militare navale gestita, all’estero, dalla Repubblica Popolare Cinese. Come scrive esplicitamente l’Australian Strategic Policy Institute (Aspi): «Perché non dovremmo credere alle affermazioni di Pechino secondo cui il suo accordo di sicurezza con Honiara non si tradurrà in una base o un luogo per far operare la sua marina dalle Isole Salomone? Perché abbiamo già visto questa strategia: a Gibuti, nel Corno d'Africa, dove le voci sui piani cinesi erano cominciate nel 2014. Perché il governo e l’esercito cinesi mentono regolarmente sulle loro reali intenzioni. E quale contributo possiamo aspettarci dalla Cina alla sicurezza regionale del Pacifico meridionale? I probabili risultati saranno la tensione militare e persino il conflitto».
Insomma: qualche apprensione sulla futura sicurezza e stabilità dell’area appare più che lecita. Tra le clausole dell’accordo tra Cina e Isole Salomone è prevista anche, e non è ben chiaro perché, l’immunità legale e giudiziaria per tutto il personale cinese. Oltre a Stati Uniti e Australia, hanno espresso “preoccupazione” anche Nuova Zelanda e Micronesia. In una dichiarazione congiunta, funzionari di Australia, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Giappone hanno affermato di “condividere le preoccupazioni per il quadro di sicurezza e i suoi gravi rischi per un Indo-Pacifico libero e aperto”. Mentre Limes, autorevole rivista italiana di geopolitica, traccia la portata dell’operazione cinese: «L’accordo in oggetto è l’esempio più eclatante degli sforzi di Pechino per erodere la sfera d’influenza dell’Australia che si integra in quella degli Stati Uniti. I quali dominano il Pacifico tramite la costellazione di basi militari imperniata sulle Hawaii, sede del Comando per l’Indo-Pacifico».
Dunque una sfida aperta. «Ma è improbabile che una mossa così provocatoria come la costruzione di una base militare cinese avvenga a breve termine», scrive in un approfondimento The Diplomat. «La Cina continua ad attuare un gioco strategico lungo e complesso. Non c’è dubbio che la sicurezza nelle Isole Salomone sia fortemente minata da questo accordo, nonostante le affermazioni contrarie di Sogavare». Anche Ned Price, portavoce del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, vede traballare la sicurezza: «Crediamo che la firma di un tale accordo potrebbe aumentare la destabilizzazione nelle Isole Salomone e costituirebbe un precedente preoccupante per tutta la regione delle isole del Pacifico». Ne è convinto anche Matthew Wale, membro del Partito Democratico delle Isole Salomone e leader dell'opposizione, che sul Guardian ha scritto: «Per il primo ministro Sogavare la sopravvivenza politica ha la meglio su tutte le altre considerazioni. Sembra percepire la Cina come un genio che agirà a suo piacimento. Ma i costi per il suo paese e per l’intera regione potrebbero essere molto più alti del previsto».