CULTURA

L’età fragile: intervista a Donatella Di Pietrantonio

Donatella Di Pietrantonio, dopo L’Arminuta (Premio Campiello, Premio Napoli e Premio Alassio) e Borgo Sud (finalista allo Strega) torna in libreria con L’età fragile (Einaudi, 2023), un romanzo in sottrazione, e in questo modo densissimo. Si innesta su una storia vera, che lei trasfigura, quella dell’uccisione di Tamara Gobbo e Diana Olivetti nei boschi del monte Morrone in Abruzzo, avvenuta nell’agosto del 1997: un doppio femminicidio che ha lasciato anche una sopravvissuta, testimone poi al processo.

A raccontare la storia, in retrospettiva, nel romanzo di Di Pietrantonio è Lucia, madre di una ragazza fuggita a Milano per cercare qualcosa che non trova, figlia di un vecchio disilluso che le lascia l’eredità più pesante: il legame alla terra, e moglie di un uomo con cui non si capisce più. Nei silenzi che assordano le pagine di Di Pietrantonio la realtà si sovrappone alla verità ed emergono brandelli di ricomposizione di senso. Non c’è una scala di priorità nelle sofferenze: quello che finisce in prima pagina è fatto della sommatoria delle vite dei singoli, dei loro pensieri pensati, delle azioni rimaste sospese a mezz’aria, delle intenzioni mancate e di quelle malamente compiute, e forse, per rendere giustizia alla vita, serve una scrittura come quella Di Donatella DI Pietrantonio. Capace di ascoltare e di restituirci a noi stessi.

Abbiamo avuto l'occasione di chiacchierare con lei.

In tempi di autofiction, quando, invece, scrivi la storia di altri, come ti poni nei confronti della “materia” che maneggi? Ti dai delle regole? Che libertà senti di avere?

Quando si tratta di una autofiction, cioè parto da qualcosa di reale che mi appartiene, mi sento più libera: banalmente con me stessa ci faccio quello che mi pare. Paradossalmente, per certi versi, sono invece molto più attenta quando mi accosto alle vite degli altri e divento ladra delle loro storie. Naturalmente sono sempre spunti e scintille, quelle che inserisco nel romanzo e vengono dalla vita vera, e mi ci accosto già consapevole di stare per operare una trasformazione sulla realtà. Questo non mi dà, però, una libertà totale: tutt’altro. Per poter fare una rielaborazione, o una vera e propria trasfigurazione della realtà, sento di dover conoscere bene il più possibile la verità: i fatti, le persone, i luoghi. In questo libro, infatti, ho operato una notevole falsificazione anche dei luoghi, non solo dei fatti e dei protagonisti, e per poterlo fare in modo credibile, verosimile e affidabile, prima ho dovuto conoscere bene il perimetro, l’area e i punti del territorio in cui i personaggi e la mia storia si muovevano. Solo dopo ho potuto mischiare le carte, prendendomi anche delle grandi licenze, ma so esattamente dove ho tolto una pedina e dove l’ho spostata: per me è molto importante. Se non faccio questo lavoro di studio e di documentazione in tutte le direzioni si corre il rischio di essere sciatti ed un rischio che non voglio assolutamente correre.

E come ti documenti?

La parte più arida è lo studio delle fonti: giornali, libri e tutto il resto; la parte più interessante è invece quella sul campo – in senso fisico, sui luoghi (prima e durante la scrittura ho fatto molte escursioni in montagna accompagnata da varie persone) – e soprattutto l’incontro con le persone: la restituzione di testimonianze umane. Alla fine de L'età fragile c’è una pagina di ringraziamenti che si apre con la magistrata che si occupò, come pm, del caso: è stato un incontro umano bellissimo, per me, e, l’ho scoperto dopo, anche per lei. L’ho vista una sola volta, ci facevamo lunghe telefonate la mattina all’ora del caffè, e, alla fine, quando le ho detto che quella sarebbe stata l’ultima era dispiaciuta. L’ho ringraziata moltissimo e ricordo che lei mi ha detto: “Sono io che ringrazio te perché questo è stato il caso più importante della mia vita professionale e soltanto parlando con te, a distanza di tanti anni, ho potuto avere la giusta distanza e insieme la possibilità di toccare le mie emozioni. All’epoca infatti dovevo essere molto concentrata, professionale, a tratti fredda, rigida persino. Non potevo abbandonarmi alla mia emotività e alla mia umanità, e invece questa occasione mi è stata data a distanza di trent’anni da queste chiacchierate”.

Tra tutte le storie possibili che sono accadute, che sono miliardi, perché di una e non di un’altra senti il bisogno e il desiderio di scrivere? Come scegli la “tua” storia?

È proprio così. Chi scrive è letteralmente circondato di storie. Sono infinite le storie che ci cercano. Come avviene la scelta? Dico sempre: un po’ sono le storie che mi trovano e un po’ sono io che trovo le storie. Ma qual è la condizione? Dev’essere qualcosa che mi è esterno, sì, ma che corrisponde profondamente a qualcosa di mio, che mi appartiene: forse un nodo che non ho sciolto e ancora mi tormenta e mi sfida. Un mio profondo dolore. Se non è così non sento “scattare” nulla. Se quello che scrivo non mi riguarda, non mi attraversa o non mi trasforma, non inizio nemmeno. Alla fine della stesura di un romanzo non devo poter essere la stessa persona di prima. Lo stesso mi accade da lettrice: dopo le prima trenta pagine di un romanzo capisco se voglio continuare o abbandonare. Il fattore decisivo per me è quanto l’autore o l’autrice si sono messi in gioco. Se sento che chi scrive resta esterno a quello che racconta, non mi piace. E riconosco quasi subito, quando leggo, se prima è stato scelto un tema e poi costruito il libro. Questa è la ragione per cui per tanto tempo non ho voluto scrivere di femminicidio: avevo paura che potesse risultare un’operazione programmatica. Invece all’improvviso, un giorno d’inverno, davanti al passaggio delle montagne della mia regione, “mi si è sbloccato un ricordo”, come si dice oggi, e ho sentito che qualcosa mi stava trafiggendo ed era qualcosa che apparteneva anche a me.

Sono due le forme di dolore che pervadono “L’età fragile”: il dolore silente e piano che proviamo davanti ai fatti della vita e il dolore violento e improvviso della tragedia. Nel tuo romanzo riesci a raccontare l’uno attraverso l’altro e, in questo senso, il dolore grandissimo che prova il lettore non è ottenuto urlando ma sussurrando. È il tuo modo di raccontare? È una scelta voluta per questo libro?

Quando scrivo sento di dover parlare del dolore, della sofferenza, della fragilità che come esseri umani proviamo e che prima o poi incontriamo nella vita. Per quanto possiamo essere fortunati prima o poi arriva il momento della prova, quando cioè incrociamo qualcosa di ineludibile che ci provoca sofferenza. La letteratura ha la capacità di soccorrerci in quel momento. Ci sono, poi, diversi atteggiamenti che possiamo avere quando il dolore ci raggiunge e ci tocca: c’è chi è evitante e c’è chi, come me, invece, lo deve attraversare fino in fondo. Mi consolano la letteratura o il cinema che affondano il più possibile nell’esperienza che anch’io, a mio modo, sto vivendo. Credo che la felicità e la festa non abbiano bisogno di essere raccontate, ma vissute e consumate, invece è nel momento della prova che abbiamo bisogno della condivisione: tutte le forme d’arte portano la testimonianza di qualcun altro che ha già attraversato quello che ora tocca in sorte a noi, e ce lo raccontano prestandoci le parole che non troviamo. Questo è il grande miracolo della letteratura: riuscire a definire quello che sentiamo e a cui non riusciamo a trovare un nome.

Quando si affrontano storie come quella che racconti ne “L’età fragile” è inevitabile fare i conti con due grandi “presenti”: la colpa e il senso di colpa…

Non sono brava ad attribuire le colpe. Non è una postura ideologica la mia, ma sono portata vedere la colpa come l’ultima parte di un processo che ha portato lì il colpevole, a cercare la fallibilità umana dietro gli atti inaccettabili. Con il senso di colpa mi trovo più a mio agio perché è qualcosa che vivo quasi quotidianamente e mi stupisce come sia un modo di sentire pervasivo e spesso ingiustificato: siamo tutti bravi a farci sensi di colpa anche quando non ce ne sarebbe motivo. Nel romanzo, il giorno in cui il duplice femminicidio è perpetrato, Lucia non c’era mentre Doralice è lì e viene ferita, ma si salva: è una sopravvissuta. Non è una condizione facile: un evento così traumatico dividerà sempre la sua vita in un “prima” e un “dopo”. Dopo, lei non potrà mai più avere la stessa serenità e la stessa tranquillità, soprattutto la stessa fiducia nell’altro e nel mondo, che aveva prima. Lucia, invece, quel giorno ha preferito andare al mare in compagnia e non l’ha detto a Doralice, che pure era la sua migliore amica, perché di lei un po’ si vergognava: non sapeva nuotare e faceva finta producendo movimenti scomposti, parlava in dialetto, insomma le avrebbe fatto fare brutta figura. Non è un fatto grave, eppure Lucia si sente colpevole. È una colpa immotivata: non voleva certo che Doralice quel giorno incontrasse l’inconcepibile, eppure il senso di colpa che prova mette quasi fine alla loro amicizia. Lucia non riesce ad avvicinare Doralice, a consolarla, ad affrontare il suo trauma. L’unica volta che va ad assistere all’udienza, le sembra che l’amica per un attimo la guardi, allora alza la mano, ma Doralice non la vede e Lucia pensa: “Forse avrei dovuto alzarla di più, la mia mano, agitarla un po’”. Sente cioè di non aver fatto abbastanza, e questo a volte ci accade.

Mi tirano ognuno dalla propria parte, al proprio bisogno. Mi spezzano Donatella DI Pietrantonio

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