SCIENZA E RICERCA

La lettera di Einstein a Maja

La lettera finora sconosciuta che Albert Einstein scrisse nel 1922 all’amata sorella Maja è stata venduta all’asta nella notte di martedì 13 novembre alla Kedem Auction House di Gerusalemme per 39.360 dollari.

In questa lettera il fisico tedesco scrive, tra l’altro: “Qui si stanno preparando tempi bui, politicamente ed economicamente, e io sono felice di andarmene via da tutto per un anno e mezzo”. 

Tanto è bastato per indurre molti a sostenere che Albert Einstein avesse in qualche modo previsto l’avvento del nazismo. Ora non c’è dubbio che il padre della relatività fosse anche un fine politico e che come tale abbia avuto felici intuizioni. Ma quando nella lettera alla sorella parla di tempi bui, non si riferisce a un futuro più o meno lontano. Parla del presente. E, infatti, Albert scrive a Maja: “Nessuno sa dove mi trovo e pensano che io sia scomparso [...]. Sto abbastanza bene, nonostante gli antisemiti tra i colleghi tedeschi”. Già, perché l’ebreo Albert Einstein già nel 1922 era oggetto di attenzione e minacce non solo da parte di gruppi della destra estremista, ma anche da parte di prestigiosi colleghi fisici.

Forse è bene ricostruire la vicenda, perché può dirci qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo in Europa e non solo.

Nel 1919 un astronomo inglese, Arthur Eddington, studiando un’eclissi nei mari del Sud scopre che la luce di stelle lontane è deviata dal campo gravitazionale del Sole proprio dell’angolo previsto dalla teoria della relatività generale elaborata da Albert Einstein a Berlino alla fine del 1915. 

Il 7 novembre il Times di Londra titola: «Rivoluzione nella scienza / Nuova teoria dell’universo / Demolita la concezione di Newton». Riconoscendo che un fisico tedesco è riuscito a guardare più lontano del gigante della fisica inglese. Due giorni dopo è TheNew York Timesad annunciare in prima pagina una «svolta epocale» nella fisica. Per poi a ritornaci ancora su l’11 novembre, sostenendo che: «Trionfa la teoria di Einstein. La luce va tutta storta nei cieli».

È in questi giorni– è in queste ore – che, per dirla con Abraham Pais, il fisico tedesco diventa «l’improvvisamente famoso dottor Einstein»: un personaggio conosciuto in tutto il mondo. La persona che, addirittura, darà il volto a un secolo, il XX. 

Ebbene proprio in questo periodo, nel 1919, Albert Einstein, come scrive sul Times e come scrive all’amico fisico Paul Ehrenfest, avverte il clima di antisemitismo montante in Germania. Questa sensazione lo porta ad avvicinarsi per la prima volta alla “sua tribù”. Ovvero a sentire con più forza la sua identità ebraica. Su una base puramente etnica e sociale – di tribù, appunto – non religiosa. Quando parlo di tribù, precisa, non indico il popolo di “fede ebraica”, ma un mero concetto biologico: un popolo che ha una consanguineità etnica.

In virtù di questo sentimento Einstein aggiunge alla sua filosofia politica e alle attività pubbliche che ne conseguono, l’appoggio esplicito, ma non incondizionato, al sionismo

È un atteggiamento inedito da parte sua. E niente affatto scontato. Altri ebrei in Germania – nella nuova Germania repubblicana – avvertono la medesima deriva antisemita, ma propongono una diversa azione politica: teorizzano e praticano la totale assimilazione. Spogliarsi della propria identità ebraica: sentirsi (e farsi sentire come) semplicemente tedeschi. Il chimico e premio Nobel Fritz Haber, addirittura, si converte al cristianesimo.

Einstein, fedele al suo spirito ribelle, geloso della sua libertà, compie il percorso esattamente inverso. Lui che non si era sentito mai “ebreo”, proprio perché avverte una crescente e insopportabile discriminazione verso gli ebrei, inizia a sottolineare la sua identità

Non è che inizi a frequentare la sinagoga. Né che si iscriva a una qualche organizzazione sionista. Ma prende posizione esplicita e pubblica contro le tesi dell’assimilazione: se vogliono salvarsi gli ebrei non devono nascondersi. All’antisemitismo dilagante non si può reagire con la ricerca dell’assimilazione, nascondendosi: non si può «vincere l’antisemitismo – sostiene – rinunciando a quasi tutto ciò che [è] ebraico». Questa politica non funziona. Infatti il tentativo di nascondersi «sembra piuttosto comico a un non ebreo». Perché gli ebrei, sostiene, sono un popolo diverso dagli altri. «La radice psicologica dell’antisemitismo sta nel fatto che gli ebrei sono un gruppo di persone a sé. Il loro essere ebrei è visibile nell’aspetto fisico e la loro discendenza ebraica si riconosce nel loro lavoro intellettuale». Siamo e siamo visti come «una diversa tribù», sostiene Einstein. E occorre prenderne atto.

La teoria e la pratica dell’assimilazione addirittura lo irritano. «Mi hanno sempre dato fastidio le smanie e i tentativi di integrarsi privi di dignità che ho osservato in tanti dei miei amici [ebrei] … Questi e altri fatti analoghi hanno risvegliato in me il sentimento nazionale ebraico».  

È per questo che il fisico inizia a prendere posizione esplicita e pubblica anche a favore degli insediamenti ebraici in Palestina. «Sono felice che ci sia un piccolo fazzoletto di terra sul quale i nostri confratelli non siano considerati stranieri». Ma, in particolare, appoggia con forza e convinzione l’idea di realizzare un’università ebraica a Gerusalemme, visto che qualcuno in Europa inizia a sostenere che gli ebrei non devono frequentare le scuole cristiane. 

E, infine, si batte per la costituzione di una “nazione ebraica” nella quale si riconoscano tutti gli ebrei del mondo. Non è un tradimento dei suoi principi universalistici, al contrario è una loro concreta applicazione: Einstein infatti critica pubblicamente gli ebrei occidentali che si sentono diversi e superiori rispetto agli ebrei orientali (russi e polacchi, soprattutto) considerati meno colti e meno raffinati. Meno disponibili a farsi assimilare. 

Molti si accorgono della nuova posizione di Einstein. Compresi alcuni membri della “sua tribù”. Il fisico è un mito vivente, conosciuto in tutto il mondo. Può diventare una bandiera del sionismo. Ed ecco, quindi, che uno dei leader sionisti, Kurt Blumenfeld, lo va a trovare a Berlino, per invitarlo a entrare formalmente e definitivamente nel movimento sionista. 

Einstein lo accoglie, proponendogli alcune domande in apparenza ingenue, ma che ancora oggi attendono risposta: perché gli ebrei, che mostrano di avere spiccate doti intellettuali, dovrebbero dar luogo, come vogliono i sionisti, a una nazione e a uno stato fondati sull’agricoltura? E, soprattutto, non è che il nazionalismo dei sionisti è il problema, invece che la soluzione?

Einstein immagina la sua come una tribù tra le altre, aperta, ancorata ai principi universalistici di socialismo, democrazia e pacifismo. Non una tribù separata dalle altre e chiusa in se stessa. Una prospettiva che vede affiorare in alcune posizioni del movimento sionista. 

E tuttavia, nonostante le riserve, Einstein accetta di appoggiarlo, quel movimento. «Come essere umano – sostiene – sono contrario a ogni forma di nazionalismo. Come ebreo da oggi sono a favore dello sforzo sionista». In realtà ciò per cui Einstein accetta di spendersi in prima persona, per adesso, è l’appoggio alla realizzazione dell’università ebraica a Gerusalemme. 

Siamo a una delle prime dimostrazioni che le posizioni politiche di Einstein sono radicali, ma non si basano su assoluti. C’è sempre, nella sua visione, una valutazione del contesto. L’Europa che emerge dalla guerra è caratterizzata da un sentimento antisemita tanto forte quanto inaccettabile. Lottare contro questa discriminazione, contro questa forma esplicita di razzismo, è una priorità. 

L’universalismo deve essere declinato in modo da difendere gli ebrei. All’antisemitismo dilagante, non si può opporre un antinazionalismo assoluto. Occorre avere una posizione più flessibile. «Si può essere internazionalisti senza essere indifferenti ai membri della propria tribù», scrive all’amico Paul Epstein nell’autunno 1919, proprio mentre sta diventando «improvvisamente famoso». 

Benpresto Einstein impara che la fama universale comporta degli oneri. E dei rischi. Mentre tutto il mondo lo celebra, nella sua Berlino è oggetto (anche) di contestazione. Di disgustose contestazioni. Il 20 febbraio 1920, nel corso di una conferenza all’università, i primi incidenti: che Einstein non ha difficoltà a interpretare come una ostilità di natura antisemita. Giovani e meno giovani della destra nazionalista tedesca lo accusano di voler far propaganda. Di esporsi sui mezzi di comunicazione di massa e di esporre la teoria per mera vanità, in deroga al costume riservato degli scienziati. 

Il 24 agosto 1920 tutto diventa più esplicito. Un’organizzazione nazionalista di destra, fondata da poco per «ridurre l’influenza ebraica dominante che si manifesta in misura crescente nel governo e nella vita pubblica» ed eufemisticamente chiamata “Gruppo di studio della filosofia naturale tedesca”,guidata da un certo Paul Weyland, indice un raduno nella più grande sala da concerto di Berlino con lo scopo, dichiarato, di criticare la teoria della relatività. L’obiettivo è scelto perché, appunto, l’ebreo Einstein è ormai un mito internazionale. E la sua teoria è fatta bersaglio da molti intellettuali perché sembra erodere le visioni del mondo basate sugli assoluti. Inoltre molti scienziati criticano la relatività generale perché sarebbe una costruzione astratta, fondata su poche e aleatorie basi sperimentali. 

Inoltre c’è quella propaganda, di cattivo gusto, che le fa il suo autore ... 

La relatività è una «teoria ebraica» aliena alla Germania: è nostro dovere nazionale proporre una via tedesca alla conoscenza profonda della natura, va predicando Weyland. 

A conferire copertura pseudo-scientifica ai deliri del piccolo gruppo c’è un fisico piuttosto noto. Si chiama Philipp Lenard, ed è stato insignito del premio Nobel nel 1905. In passato Lenard aveva dato pubblica prova di ammirare Einstein. Nel 1909 lo aveva definito «un pensatore profondo e lungimirante». Ma già dal 1905 conservava nel cassetto della sua scrivania, come una reliquia, una lettera di Albert Einstein. 

Poi, ha cambiato idea

La verità è che Philipp Lenard, ormai prossimo ai 60 anni, è un fisico frustrato. Convinto che, per mera sfortuna, Wilhelm Röntgen gli abbia soffiato la scoperta dei raggi X. E, soprattutto, è totalmente incapace di comprendere la nuova fisica. Così, anno dopo anno, l’avversione alla relatività e a Einstein aumentano fino a diventare il suo stesso scopo di vita. Basta con l’astratta “fisica ebraica”, noi dobbiamo difendere la solidità della “fisica tedesca”. 

I proseliti di Lenard non mancano, nella Germania turbolenta di quegli anni. Se ne renderà conto, di lì a un paio di anni, un giovane studente di fisica, Werner Heisenberg, quando giunge, nell’estate del 1922, a Lipsia per ascoltare una conferenza di Einstein. Non fa in tempo ad entrare in aula che: «Un giovanotto mi ficcò in mano un volantino rosso, che, più o meno, diceva che la teoria della relatività era una speculazione ebraica tutta da dimostrare, immeritatamente propagandata dalla grancassa dei giornali ebraici a favore di Einstein, un membro della stessa razza. Dapprima pensai che fosse l’opera di uno di quegli squilibrati che, di tanto in tanto, frequentano tali riunioni. Ma quando seppi che quel volantino rosso era distribuito da uno dei più rispettati fisici sperimentali tedeschi [Philipp Lenard], ovviamente con la sua approvazione, si infranse una delle mie più grandi speranze. Anche la scienza, dunque, poteva essere avvelenata dalla passione politica». 

Quel giorno al giovane Heisenberg viene offerta la prova evidente che non basta un Nobel per sfuggire alle trappole della stupidità. E, soprattutto, che non sempre è possibile separare la scienza dalla politica. Ci sono occasioni, drammatiche, in cui anche un uomo di scienza deve compiere precise scelte politiche.

Ma torniamo al 24 agosto1920, a Berlino. Einstein è irritato per quello che si annuncia come un pubblico e infondato attacco alla teoria. Non intende farla passare liscia ai suoi malaccorti critici. Così, malgrado la sua seconda moglie, Elsa, lo sconsigli, si reca in sala con l’amico chimico Walther Nernst ad assistere al raduno berlinese della «Compagnia Antigravità», come ha ribattezzato, con ironia, il “Gruppo di studio della filosofia naturale tedesca”. 

Weyland esordisce mettendo sotto accusa il chiaro «spirito antitedesco (sic!)» della relatività generale. Quanto a Philipp Lenard, il premio Nobel non partecipa alla riunione. Ma ha esplicitamente criticato sia la teoria della relatività sia il suo autore. E per questo viene ipso factoarruolato come bandiera della lotta alla “fisica ebraica”. Inoltre i suoi rilievi vengono esplicitamente richiamati da un altro fisico sperimentale presentein sala, Ernst Gehrcke. Un fisico di modesto valore scientifico che l’influente Lenard proporrà, addirittura, per il Nobel. 

Einstein con Nernst assiste alle prolusioni di Weyland e di Gehrcke. Tutti lo vedono mentre, in un angolo, applaude durante i passaggi più improbabili delle relazioni. Non mi sono mai divertito tanto in vita mia, sostiene. In realtà è inviperito. Così tre giorni dopo invia un articolo al Berliner Tageblattin cui sostiene con veemenza: l’accoglienza nei miei confronti sarebbe stata ben diversa se fossi stato «un cittadino tedesco, con o senza svastica, invece di un ebreo di convinzioni liberali e internazionaliste». Ricorda i giudizi favorevoli alla sua teoria pronunciati da fisici di grande valore come Planck, Lorentz ed Eddington. E, infine, conclude con una serie di espressioni ingiuriose nei confronti di Philipp Lenard.  

Elsa e molti amici – in primisl’amico fisico Max Born e soprattutto la moglie, Hedwig; ma anche i coniugi Ehrenfest – lo rimproverano per quella sua uscita pubblica così veemente. Einstein sembra dar loro ragione. Sembra quasi pentito. Ma poi, ancora una volta, fa rilevare che uno scienziato non può tirarsi indietro nelle vicende politiche quando la posta in gioco è così alta. «Dovevo farlo se volevo rimanere a Berlino, dove ogni ragazzino mi riconosce dalle fotografie. Se si crede nella democrazia, si deve dare al pubblico anche questo».

D’altra parte la sua è una reazione comprensibile. Lui sta raccogliendo i segni dell’antisemitismo crescente. Ed è evidente che Lenard, un fisico considerato autorevole in Germania, ha già imboccato la strada che lo porterà ad essere di gran lunga lo scienziato più spregevole negli anni bui della storia tedesca. La riprova la si ha al congresso che l’Associazione degli scienziati e dei medici tedeschi tiene a Bad Nauheim, dal 19 al 25 settembre. Sono presenti sia Lenard, che si sente insultato dall’articolo di Einstein e pretende pubbliche scuse, sia Einstein, che si sente insultato dalle critiche di Lenard e non intende affatto scusarsi. La tensione è alta. Si teme l’intervento di bande di contestatori. L’edificio dove si tiene il convegno è sorvegliato da poliziotti armati. 

Non si verificano incidenti. Ma il conflitto tra i due fisici non si compone. Così Lenard si lascia andare a nuovi, violenti attacchi contro la fisica di Einstein. Farcendoli di espressioni antisemite. La sua avversione per il padre della relatività diventerà sempre più rancorosa e assumerà, se possibile, una dimensione sempre più politica. Lenard diventa definitivamente il campione della “fisica tedesca” che si oppone alla “fisica giudaica”.

Einstein si difende a testa alta. 

Tutto questo accade in Germania mentre, come abbiamo detto, nel resto del mondo Einstein è diventato una celebrità. E si accinge sia a osservare gli effetti di questa condizione che a moltiplicarli, attraverso una serie di viaggi – un vero e proprio tour – che lo porteranno in giro per il mondo. A iniziare dagli Stati Uniti d’America, dove giunge nella primavera 1921. 

In origine il viaggio negli Statesè programmato come un giro di conferenze scientifiche. Anche per raggranellare un po’ di valuta stabile con cui mantenere la prima moglie, Mileva, e i figli che sono in Svizzera, a Zurigo, in un momento in cui il marco tedesco perde valore di giorno in giorno. Ma poi ecco Kurt Blumenfeld tornare a Berlino per fargli visita, seguito a stretto giro da un telegramma da parte di Chaim Weizman, il presidente dell’Organizzazione sionista mondiale. 

Weizman, che diventerà il primo presidente del futuro stato di Israele, è uno scienziato (un biochimico) emigrato dalla Russia in Inghilterra. Ha lavorato per il governo inglese, conquistando una notevole influenza. Tanto da spingere il ministro degli esteri di sua Maestà Britannica, Arthur Balfour, a rilasciare, nel 1917, una dichiarazione in basa alla quale il Regno Unito si impegna a sostenere «l’istituzione di uno stato nazionale per il popolo ebraico in Palestina». 

Il leader sionista ora invita Einstein ad accompagnarlo in un viaggio negli Stati Uniti per raccogliere fondi e contribuire così a finanziare gli insediamenti ebraici in Palestina. 

Einstein è riluttante. Ma infine accetta. Lo considera un suo preciso e inderogabile dovere, visto che ha accettato di appoggiare la causa sionista. «Sto veramente facendo tutto quanto è in mio potere per i fratelli della mia razza che sono trattati così male dappertutto» scrive a un altro amico fisico, Maurice Solovine. 

A Fritz Haber, che invece lo scongiura di non andare in America perché i tedeschi l’avrebbero presa male, risponde: «Nonostante le mie nette convinzioni internazionaliste, ho sempre sentito il dovere di stare dalla parte dei miei perseguitati e moralmente oppressi compagni di tribù».  

Ma a spingerlo ad accettare è soprattutto la possibilità di realizzare un’università a Gerusalemme. «La prospettiva di fondare un’università ebraica mi riempie di particolare gioia, avendo di recente visto innumerevoli esempi di trattamento sleale e ingeneroso di splendidi giovani ebrei, con tentativi di negare loro la possibilità di istruirsi». 

È così che il 21 marzo 19121 la strana coppia, Albert Einstein e Chaim Weizman, si imbarcano su un transatlantico e dall’Olanda raggiunge gli Stati Uniti. Blumenfeld si sente in dovere di avvertire Weizman: «Come lei sa, Einstein non è un sionista e la prego di non cercare in alcun modo di forzarlo ad aderire alla nostra organizzazione […] Ho sentito […] che lei si aspetta che Einstein tenga dei discorsi. Per favore, faccia bene attenzione a questo. Einstein […] spesso dice per ingenuità cose che non sono affatto gradite».

In realtà l’ingenuità di Einstein è solo libertà di pensiero e onestà intellettuale. La sua è una mentalità molto lontana da quella del politico politicante. «Durante la traversata non passò giorno che Einstein non mi spiegasse la sua teoria, e quando arrivammo ero convintissimo che lui la comprendeva», ricorderà con ironia Weizman.

Negli Usa, dove sbarca il 2 aprile, Einstein è accolto come una star. Decine di fotografi e giornalisti. Folle plaudenti. Le conferenze scientifiche si alternano a veri e propri comizi a carattere politico. Ovunque e comunque sale affollate e osannanti. Il successo di Albert Einstein è senza precedenti. Il sindaco di New York lo omaggia quasi fosse un eroe di guerra e il presidente Warren Harding lo invita alla Casa Bianca. Ma la raccolta dei fondi non è affatto entusiasmante. Weizman sperava di raccogliere almeno 4 milioni di dollari: ne racimola 750.000. Inoltre non riesce a ottenere quello che forse si aspettava: l’adesione formale di Einstein al suo movimento.

Anche dopo il viaggio e malgrado la stretta consuetudine i rapporti con Chaim Weizman saranno sempre «ambivalenti», secondo la definizione che ne dà lo stesso Einstein. Sta di fatto che il fisico non accetterà mai di far parte in maniera formale del movimento sionista. Non penserà mai di trasferirsi in Palestina. E, soprattutto, non appoggerà mai l’idea che in Palestina debba nascere uno stato-nazione ebraico.

Sta di fatto che il viaggio negli Stati Uniti finisce per consolidare non l’immagine sionista di Einstein, ma al contrario la sua immagine internazionalista. Lui si sente e ora è sempre più percepito come “cittadino del mondo”. Non come un tedesco. E neppure come un “ebreo svizzero”. 

L’immagine di Einstein “cittadino del mondo” viene rafforzata dalla serie di altri viaggi che effettua nei mesi successivi. A iniziare da quello, realizzato sulla strada del ritorno dagli Usa, in Gran Bretagna. Tutti i media del mondo riferiscono che a Londra il più grande fisico del presente, il tedesco Albert Einstein, vada a deporre una corona di fiori nell’Abbazia di Westminster sulla tomba del più grande fisico del passato, l’inglese Isaac Newton. 

Un po’ più contrastato è invece il viaggio che Einstein compie nel marzo 1922 a Parigi, su invito del Collège de France e su consiglio del Ministro degli Esteri tedesco, Walther Rathenau. 

I rapporti tra Germania e Francia sono molto tesi. E il viaggio di Albert Einstein da Berlino a Parigi può rivelarsi, anche a livello diplomatico, un chiaro gesto di riconciliazione da parte tedesca: perché fuori dalla Germania il fisico non è considerato un ebreo ma, appunto, un tedesco. Un tedesco pacifista e internazionalista

Einstein assolve con disinvoltura il ruolo di ambasciatore. Fa molta impressione, per esempio, il fatto che lui si rivolga in francese ai francesi. E soprattutto che compia il giro dei cimiteri di guerra, ponendo corone di fiori sulle tombe di tutti i caduti: tedeschi, francesi, inglesi e di qualsiasi altra nazionalità. 

Tuttavia il viaggio è anche occasione per evocare pericolosi fantasmi e alimentare opposti fanatismi. L’arrivo di Albert Einstein a Parigi è contestato sia dai nazionalisti tedeschi sia da quelli francesi. Per evitare incidenti, Einstein, giunto in treno nella capitale francese, scende in una stazione di periferia.

Qualcosa di strano, anche se di natura affatto diversa, accade anche in un viaggio compiuto in Cecoslovacchia nel medesimo anno. Il fisico è a Praga, ospite dell’amico e collega Philipp Frank. Un giovane si reca presso il laboratorio di fisica dell’università e gli consegna un manoscritto. Qui c’è la provasostiene,che è possibile costruire e usare un’arma di spaventosa potenza applicando la sua nota equazione dell’eguaglianza tra energia e materia. Sì, la famosa formula E= m c2. Einstein blocca lo sconosciuto interlocutore e lo licenzia: «Si calmi. È inutile continuare. Ogni ulteriore discussione è del tutto improduttiva sia per me che per lei». Quel giovane sconosciuto è probabilmente un matto. Ma, 25 anni doposarà proprio un’applicazione di quella formula a distruggere Hiroshima e Nagasaki.

Intanto l’antisemitismo continua a montare nella repubblica di Weimar. E la reale portata del pericolo associato a quel sentimento, sempre più diffuso, diventa evidente proprio in quei mesi del 1922. Quando, il 24 giugno, il ministro degli Esteri, Walter Rathenau, l’uomo che aveva inviato Einstein ambasciatore di pace in Francia, viene assassinato da un giovane estremista di destra. Al processo risulta chiaro che Rathenau non è stato ucciso per la sua politica: si è battuto per far accettare il Trattato di Versailles alla Germania e ha firmato di persona il Trattato di Rapallo con l’Unione Sovietica. Ma è stato ucciso solo perché ebreoColpevole, a detta del suo assassino, di una cospirazione «giudaico-comunista»contro la Germania. E sì che il ministro degli esteri era il teorico dell’assimilazionismo e aperto avversario sia del sionismo sia del socialismo.

Walter Rathenau apparteneva a una famiglia ebrea molto facoltosa. Il padre aveva fondato l’AEG, un’azienda elettrica che aveva (tra l’altro) vinta la competizione con quella della famiglia Einstein ed era diventata una grande impresa. Lui era stato un altro funzionario del ministero della Guerra, prima di essere nominato a sua volta ministro della Ricostruzione e poi ministro degli Esteri.

Benché avessero posizioni politiche diverse, Einstein e Rathenau erano diventati amici. Il ministro degli esteri pensava di poter spegnere l’antisemitismo montante attraverso la totale assimilazione degli Ebrei, con l’assunzione di ruoli pubblici e diventando parte integrante della classe dirigente del paese. 

Rathenau è un politico navigato, dalla solida tempra. Ma, come sempre, Albert Einstein pensa che, con la sua logica, possa far cambiare posizione alle persone che stima. Così si dà da fare per introdurre all’antisionista Rathenau i sionisti Blumenfeld e Weizman. Gli incontri avvengono proprio in casa Einstein, oltre che nella tenuta dei Rathenau. Grande cordialità, certo. Ma, dal punto di vista politico ognuno resta sulle proprie posizioni

Alla notizia dell’assassinio Einstein resta sconvolto. Partecipa poi, con un milione di connazionali, ai funerali. E, infine, il 4 luglio invia a Marie Curie una lettera di dimissioni da membro del Comitato per la Cooperazione Intellettuale della Società delle Nazioni, di cui è appena diventato membro, motivandole col fatto che il forte antisemitismo nel paese lo rende poco adatto a quella funzione. «La situazione qui è tale che un ebreo farebbe bene a imporsi delle restrizioni per quanto riguarda la partecipazione agli affari politici. Inoltre, devo dire che non ho nessuna voglia di rappresentare persone che di certo non sceglierebbero me come loro rappresentante». 

La Società delle Nazioni è nata nel 1919 in seguito al Trattato di Versailles e su impulso del presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, come primo abbozzo di un governo mondiale per impedire che in futuro si verificassero guerre devastanti come quella conclusa. L’esordio non è dei migliori. La Germania è stata tenuta fuori. Gli stessi Stati Uniti non vi partecipano, perché i repubblicani al Congresso hanno votato contro l’idea del loro presidente.

Il Comitato Internazionale per la Cooperazione Intellettuale è, invece, nato nel 1922 per volontà della Società delle Nazioni per riunire grandi intellettuali e fare di loro ambasciatori di pace, Ne fanno parte, tra gli altri, Marie Curie, Henri Bergson, Paul Valéry, Thomas Mann, Béla Bartók, Salvador de Madariaga. Naturalmente tra i primi a essere invitati a entrare nel Comitato (e ad accettare l’invito) c’è Albert Einstein.

L’adesione convinta del fisico al Comitato e alla Società delle Nazioni ha una valenza ideale. Il fisico crede nell’idea di un governo mondiale e la Società delle Nazioni va in quella direzione. Crede anche nella valenza maieutica della cultura. E il Comitato Internazionale per la Cooperazione Internazionale è una buona vetrina dove mettere in mostra le idee del pacifismo.

Ma,in Germania– nella Germania in cui è morto assassinato Walter Rathenau – l’adesione lo espone a seri rischi. Tanto più che la Germania non fa parte della Società delle Nazioni (vi entrerà solo nel 1926), che nel paese è ritenuta sede di politica antitedesca. E, infatti, i nazionalisti contestano esplicitamente la presenza di un tedesco, ebreo e pacifista, nel Comitato, mentre la polizia avverte Einstein che il suo nome figura in una lista di obiettivi stilata da simpatizzanti nazisti. Forse è meglio lasciare non solo il Comitato, ma anche Berlino. O, almeno, astenersi da qualsiasi intervento pubblico.

D’altra parte che i nazisti non scherzino lo dimostra il fatto che il loro capo, Adolf Hitler, saluta gli «eroi tedeschi» che hanno ucciso Rathenau. Per inciso: Philipp Lenard, il giorno del funerale del ministro assassinato, rifiuta di rispettare il lutto nazionale e di sospendere le lezioni. Gruppi di studenti corrono ad applaudirlo. Ma un gruppo di operai lo trascina fuori dall’aula e sta per gettarlo nel fiume Neckar. Lo salva la polizia.  

Questo è il clima, ormai, nella Repubblica di Weimar

Einstein pensa per la prima volta di lasciare la Germania, perché, spiega a Solovine: «Sono sempre sul chi vive». La voce che il «papa della fisica» (come inizia a essere definito) possa lasciare la Germania si diffonde. Adesso tocca ad altri richiamarlo alla necessità di lottare. Marie Curie lo invita a restare nel Comitato: «penso che il suo amico Rathenau l’avrebbe incoraggiata a fare uno sforzo». 

Intanto Einstein decide di restare in Germania. Ma si allontana da Berlino e si trasferisce, in via provvisoria, a Kiel, dopo aver chiesto all’università il permesso di assentarsi dalle lezioni e a Planck di scusarlo per l’assenza all’assemblea annuale degli scienziati tedeschi. Intanto Lenard e Gehrcke, alla testa di un gruppo di 19 colleghi, cercano di approfittarne e così elaborano, firmano e fanno circolare una Dichiarazione di protestanel tentativo di escluderlo definitivamente dall’assemblea. «I giornali hanno menzionato il mio nome troppo spesso, mobilitando così la feccia contro di me», scrive nel biglietto di scuse a Planck. 

Naturalmente Einstein non resiste più di tanto nella “pace di Kiel”. Ed eccolo, il primo agosto 1922, appena cinque settimane dopo l’assassinio di Rathenau, partecipare a un grande raduno pacifista organizzato in un parco di Berlino.Il fisico non prende la parola. Ma si lascia vedere e acclamare dalla folla. Inoltre si lascia convincere da Marie Curie e dall’inglese Gilbert Murray a ritirare le dimissioni dal Comitato per la Cooperazione Intellettuale. Anche se, nei due anni successivi, parteciperà di rado alle riunioni. 

Proprio in questi mesi, e con sommo disappunto di Philipp Lenard, ad Albert Einstein viene assegnato il premio Nobel: ma per l’anno precedente, il 1921. Anno in cui il Nobel per la fisica non era stato assegnato. Anche per le polemiche in corso, le motivazioni del premio fanno riferimento ai suoi lavori sull’effetto fotoelettrico del 1905. La Reale Accademia delle Scienzedi Stoccolma non reputa(non reputerà mai) degnadel massimo premio scientifico quella teoria della relatività che Lord Kelvin aveva definito, a ragione, «una delle conquiste più elevate del pensiero umano». Einstein non se ne duole più di tanto. Quanto all’assegno andrà puntualmente a Mileva. 

È invece Lenard che scrive all’Accademia di Stoccolma, naturalmente per protestare. Einstein, sostiene, ha frainteso la natura della luce. E, per di più, è un ebreo in cerca di pubblicità. La sua impostazione è del tutto estranea alla “fisica tedesca”. Lenard non ha ritegno di esprimere in ogni luogo e in ogni occasione le sue idee, ormai scopertamente razziste.  

Se il Nobel neolaureato Albert Einstein è sconvolto dall’assassinio di Rathenau, sua moglie Elsa ne è terrorizzata. D’altra parte il ministro degli esteri è stato ucciso perché ebreo. L’ex cancelliere Philip Scheidemann è da poco scampato a un agguato per lo stesso motivo. Il giornalista Maximilian Harden è stato ferito perché ebreo. Chi può escludere che Albert, ebreo, premio Nobel, celebrità mondiale e per di più pacifista, sia l’obiettivo del prossimo attentato? Così Elsa, a insaputa del marito, convince la polizia a proteggerlo in modo discreto, ma efficace. Quando, la mattina, il più famoso scienziato del pianeta prende il tram per andare all’università, non sa che buona parte dei passeggeri che incontra e saluta gli fanno, discreti, da scorta. 

Ma, con gran sollievo di Elsa, Einstein deve ottemperare agli obblighi delle star internazionali. E viaggiare per il mondo. Presto i coniugi Einstein partono per un lungo viaggio – circa sei mesi, il più lungo della sua vita – verso l’Estremo Oriente. L’ansia di Elsa può finalmente placarsi.

I coniugi si imbarcano, a ottobre, a Marsiglia sulla nave Kitano Maruche li porterà a Ceylon, Singapore, Hong Kong, Shangai e, infine, per due settimane in Giappone, su invito di un editore nipponico. Ovunque l’arrivo di Einstein suscita attenzione e persino entusiasmo. A Tokio lo accolgono, addirittura, folle osannanti. E pronte ad ascoltarlo per quattro ore mentre spiega la sua teoria della relatività. 

Elsa è felice.

L’ambasciatore tedesco, meno. «L’intero viaggio del famoso personaggio è stato messo in scena e interpretato come un’iniziativa commerciale», commenta.

Ecco, è in questo clima che Albert scrive la lettera a Maja. Sostenendo anche con la sorella ciò che da qualche anno andava sostenendo con tutti, in pubblico e in privato.

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