“La Grecia ebbe i suoi Leonida, Roma antica i suoi Fabi e l’Italia moderna i suoi Cairoli” scrisse Giuseppe Garibaldi nel proclama sull’esito dei combattimenti di Villa Glori, riferendosi a Enrico e Giovanni che combatterono (e morirono, Enrico sul campo, Giovanni una volta rientrato) insieme a una settantina di patrioti pavesi. Erano partiti da Terni il 20 ottobre del 1867, e il 23, nelle campagne circostanti il Tevere, tentarono di far fronte ai 300 carabinieri svizzeri dell’esercito pontificio, nella speranza di liberare Roma e annetterla all’Italia, ma non vi riuscirono. Tra i “congiurati” si distinse il ventitreenne Edoardo Bassini, laureato in medicina, che aveva già preso parte alla Terza guerra di indipendenza in Val Camonica l’anno precedente, tacendo il suo titolo di studio per esser certo di non venir arruolato nel servizio sanitario e invece combattere in prima linea, come soldato semplice.
Era infatti uno dei più ferventi agitatori del pavese: nato nel capoluogo in Piazza Scaldasole il 14 aprile 1844 da Luigia Rognoni e Giovanni Battista Bassini (quest’ultimo commerciante di prodotti agricoli), si dedicava con passione a ciò in cui massimamente credeva, la medicina e la liberazione del Paese. A sud dell’Adamello insieme a un piccolo distaccamento aveva respinto i nemici distinguendosi in diversi fatti d’armi, e si dice che, una volta rientrato a casa dopo l’armistizio, si fosse sciacquato nel Ticino prima di cominciare a frequentare da volontario la sala anatomica dell’Ospedale San Matteo. Era l’estate del 1867, ma già in ottobre Bassini si era nuovamente arruolato come volontario con Giovanni Cairoli nella prima squadra della terza sezione. A Villa Glori fu ferito gravemente da una baionetta che gli aveva squartato il ventre; solo per questo non finì in carcere ma venne ricoverato di ospedale in ospedale, fino a quando le sue condizioni non migliorarono e ne permisero la detenzione a Castel Sant’Angelo, a liberazione paradossalmente già avvenuta.
Una volta rientrato a Pavia, ancora in pericolo di vita, a curarlo fu quel Luigi Porta che divenne poi il suo maestro: ci vollero quasi cinque mesi perché si rimettesse in piedi e potesse cominciare a frequentare di nuovo l’ospedale, dedicandosi in particolare all’anatomia e alla patologia chirurgica e diventando in breve secondo assistente proprio di Porta. Risale a quegli anni l’inizio dello studio certosino che portò Bassini, dopo molti anni e innumerevoli operazioni eseguite con successo, a formulare il “metodo radicale di cura dell’ernia inguinale”, che lo rese celebre e sui cui tuttora è basata la moderna tecnica.
Contestualmente iniziò il “Grand tour” per le cliniche di eccellenza di mezza Europa, secondo i dettami del suo maestro: Vienna, Berlino, Monaco, Londra, per poi rientrare in Italia come primo assistente di Porta, che poco dopo morì lasciandogli un’eredità morale e materiale (un suo busto in bronzo, l’orologio con la catena d’oro e dodici opere a scelta dalla biblioteca personale), oltre che il suo posto all’insegnamento.
Ma Edoardo Bassini voleva meritare la cattedra per concorso e non per chiamata, così tornò a Londra, accettò incarichi a Parma e a La Spezia fino a quando non si classificò primo alla selezione per la cattedra di patologia chirurgica di Padova, rimasta vacante alla morte di Francesco Marzolo. Il 1882-83 fu il suo primo anno accademico sia come docente che alla direzione del reparto chirurgico maschile.
“ Dalli, dalli con lo spray a quei microbi che vedo correre lassù! Vanzetti a Bassini, in sala operatoria
Amatore Austoni, chirurgo primario dell’ospedale civile di Verona all’inizio del secolo scorso, nel commemorarlo ricorda uno dei primi episodi degni di nota che costellarono la sua vita patavina, dove brillò incontrastato, nel rispetto dei colleghi e con la devozione dei pazienti. “Il Vanzetti [allora insegnante di clinica chirurgica] mentre operava,” – racconta – “accortosi della presenza del Bassini, prendendo una presa di tabacco e lisciandosi la maestosa barba, si rivolse al pubblico e additando il soffitto e i banchi disse con tono canzonatorio: dalli, dalli con lo spray a quei microbi che vedo correre lassù!”. Bisogna aggiungere infatti che il celebre chirurgo a Londra aveva lavorato con Lister, uno degli ideatori, a partire dalle intuizioni di Pasteur, del metodo antisettico (più correttamente “asettico” secondo la terminologia usata oggigiorno, trattandosi di sterilizzazione chimica e non tramite calore). Lister utilizzava, e suggeriva di utilizzare, l’acido fenico (dapprima puro quindi in soluzione, per ridurne l’effetto caustico), sulla cute e sulle garze operatorie che presero il nome di “medicatura alla Lister” e poi ideando un vero e proprio spray che sarebbe servito a sterilizzare l’ambiente chirurgico, ma che causò a medici e ammalati nientemeno che problemi ai bronchi, irritazioni cutanee e intossicazioni renali. Finì quindi per essere abbandonato nel 1887 anche dal suo stesso inventore.
È in questo contesto che si inserisce la battuta del Vanzetti al Bassini, il quale peraltro grande stima aveva dell’allievo, al punto da consegnargli il bisturi quando chiese di ritirarsi dall’insegnamento. Fu così che dal 1883 al 1888, oltre alla docenza di patologia chirurgica, ebbe anche l’incarico di sostituire il maestro alla morte del quale, il 6 gennaio 1888, gli succedette formalmente.
Bassini era un lavoratore instancabile e di vedute aperte, anche se dallo sguardo burbero e dal sorriso raro: la sua sala operatoria era sempre aperta a chi volesse osservare, imparare e dubitare, fosse un allievo padovano o un giovane chirurgo proveniente da tutte quelle cliniche d’Europa in cui a suo tempo egli stesso aveva studiato o persino dall’America. “Chi non sa dubitare non sa studiare” soleva infatti ripetere ai suoi secondi.
Inoltre era umile, al punto da tagliar corto quando gli veniva conferito un riconoscimento. Quando nel 1904 venne nominato senatore per i meriti scientifici e patriottici, i suoi studenti vollero omaggiarlo di un bisturi d’oro. Riuscirono a consegnarglielo in sala operatoria tra un intervento e l’altro e pare che lui abbia replicato: “Sì, grazie, ma lavoriamo”. E quando un suo paziente, un signore padovano operato di ernia, volle mostrargli riconoscenza con un assegno di centomila lire, lo restituì con un biglietto che diceva: “Esagerazioni!”. Al contrario, mai venuto meno il suo spirito patriottico e interventista della prima ora, avrebbe voluto venisse messo in pratica il progetto che presentò al ministero per mobilitare cliniche e ospedali in caso di guerra, e che invece rimase negli archivi. Allora ottenne che almeno la sua clinica potesse ingrandirsi per ospitare feriti provenienti dal fronte o da altri ospedali, specie i casi più gravi: 250 letti in più solo per ufficiali e soldati. A sorpresa la regina Elena di Savoia si presentò lì un mattino e il Bassini, seppur consigliato da un collega di cambiar tenuta, la accolse in vestaglia di gomma e zoccoli. La clinica era infatti diventata letteralmente la sua casa: mentre la gente sfollava nelle campagne circostanti Padova, dato che la città era nel mirino delle incursioni aeree, il chirurgo dormiva nel sottotetto della clinica, senza troppi timori.
Due erano le attività che il medico affiancava all’estenuante lavoro in ospedale, la sua ragione di vita: l’equitazione, cui si era dedicato fin dall’arrivo a Padova con disciplina e costanza, rilassandosi in lunghe galoppate sugli argini tra Bacchiglione e Brenta e a cui non rinunciò mai, e l’agronomia, una passione di famiglia. Nel veronese aveva infatti comprato un terreno di 300 ettari: lo fece bonificare e vi fece costruire strade, fossati d’irrigazione, case coloniche e stalle che popolò personalmente scegliendo uno a uno gli animali. A trasformazione avvenuta, divise la tenuta tra i suoi braccianti, rimanendo a capo dell’azienda.
Fu maestro di umiltà e fiducia: si fece operare di varici dal suo assistente, scegliendo di essere ricoverato in una corsia comune della sua clinica, e si decise a pubblicare la sua opera imperitura sull’ernia solo quando poté portare a sostegno del metodo utilizzato in sala chirurgica una statistica di 262 casi. La sua filosofia d’intervento, che applicò lì come in tutti gli altri vasti campi di cui si occupò, restò a universale paradigma: mantenere l’integrità del corpo e perciò ricondurre la parte lesa quanto più possibile al “modo di essere dello stato sano”. Fosse questa un organo, un terreno ammalorato o un Paese in guerra.
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