SCIENZA E RICERCA

Da Padova a Kathmandu e ritorno: la ricerca scientifica in Nepal

Raju Khanal, dopo essersi guadagnato il dottorato in fisica a Innsbruck in Austria, è diventato professore di fisica alla Tribhuvan University di Kathmandu, la decima università più grande al mondo per numero di iscritti e fondata nel 1959, la più antica del Nepal. È venuto in visita a Padova lo scorso novembre grazie a un programma di scambio di cooperazione internazionale finanziato dall'ateneo di Padova e grazie al Prof. Piero Martin, Professore di fisica sperimentale a Padova, che a sua volta è stato a Kathmandu l'anno scorso con il medesimo programma di cooperazione.

Il Nepal è stato attraversato da una dura guerra civile che ha visto contrapposte le forze filomonarchiche a quelle maoiste dal 1996 fino al 2007, quando il parlamento ha approvato un emendamento costituzionale che sanciva il passaggio del Paese da monarchia a repubblica, avvenuta il 28 maggio 2008. La guerra ha portato diversi ritardi nello sviluppo del Paese e, seppur più stabile, la situazione di oggi registra oltre a una diffusa corruzione tassi di povertà molto elevati, peggiorati se possibile dal terremoto dell'aprile del 2015 di cui ancora oggi si sentono le conseguenze.

Eppure anche in un Paese come il Nepal, noto per le vette innevate più alte del mondo, qualcuno pensa alla ricerca scientifica.

Professor Khanal, che cosa la porta qui a Padova?

L'anno scorso il Prof. Martin è stato a Kathmandu due settimane per insegnare ai nostri studenti grazie a un progetto di cooperazione internazionale dell'università di Padova. Il mio campo di studi è la fisica del plasma, lo stesso di Piero, e quindi la collaborazione è stata immediata e fruttuosa. Dato che l'università di Padova promuove questi scambi, che sono per noi molto utili, abbiamo deciso di continuare il progetto di collaborazione, proponendo una mia visita a Padova, che è stata approvata. Ho avuto modo di discutere con colleghi sugli esperimenti che stanno portando avanti e di visitare laboratori dove si svolgono esperimenti magnifici, come quelli del consorzio Rfx dove si studia la fusione nucleare e si lavora anche per Iter, e del dipartimento di fisica e astronomia, in particolare nei gruppi che si occupano di fisica della materia. Ma in verità sono interessato principalmente a esperimenti che possano svolgere i nostri studenti del master, quindi esperimenti su piccola scala, anche in campi diversi dalla fisica del plasma. In Nepal non abbiamo strutture e fondi che ci permettano di intraprendere grandi esperimenti, praticamente l'unica fisica che possiamo fare è quella teorica, la fase sperimentale semplicemente non ce la possiamo permettere. I nostri studenti quando si laureano hanno una buona preparazione in fisica teorica, ma non in fisica sperimentale. Il mio obiettivo è quello di iniziare ad allestire qualche apparato sperimentale in modo tale che i nostri studenti sviluppino competenze migliori che potranno spendere quando andranno all'estero a collaborare con altri laboratori.

Ha individuato già qualche esperimento da portare ai suoi studenti?

Sì, faremo richiesta di fondi e abbiamo in mente una collaborazione permanente tra l'università di Padova e quella di Kathmandu. Penso che potremmo iniziare con gli esperimenti con plasmi a pressione atmosferica, che mi sono stati illustrati dal dr. Zuin e che possono avere varie applicazioni in medicina e in scienze dei materiali.

Molto interessanti sono stati anche gli esperimenti didattici proposti dalla prof.ssa Maurizio nel laboratorio di fisica della materia. Cercherò anche qualche finanziamento locale, in Nepal.

Come è messa secondo lei la ricerca scientifica in Nepal?

Il nostro governo sta tentando di migliorare la condizione della ricerca scientifica in Nepal lentamente. All'inizio la formazione degli studenti era solo teorica, ma ora stiamo tentando di rendere obbligatorio per gli studenti fare almeno un po' di attività di ricerca alla fine del loro percorso di formazione. E finalmente ora è previsto che occorre fare ricerca e avere pubblicazioni, e non soltanto insegnare, per ottenere gli avanzamenti di carriera, prima non era così. Per ottenere questo abbiamo bisogno di finanziamenti, che ovviamente al momento sono molto pochi, anche comparati a Paesi non europei. Nelle aree remote e povere del nostro Paese, dove le persone non hanno medicine e a volte neppure acqua potabile, siamo sostenuti dal governo, con pochi soldi certo, ma questo sta lentamente cambiando. La mentalità nei confronti della ricerca sta lentamente cambiando in meglio.

E coloro che vanno avanti con il percorso di formazione poi se ne vanno?

Molti studenti giunti ai livelli più alti di formazione non avendo le strutture necessarie a portare avanti i loro interessi e le loro ricerche se ne vanno all'estero e poi non tornano. Vorrebbero tornare, ma non vogliono ricominciare da zero. Io ho svolto il mio dottorato di ricerca in Austria a Innsbruck, facevo principalmente simulazioni al computer, quindi per me non è stato un problema. Ma abbiamo bisogno di strutture per mettere i nostri studenti nelle condizioni di lavorare bene, anche strutture basilari. Del resto Galileo ha scoperto quello che ha scoperto con strumenti che si è costruito con le sue sole mani. Si può fare buona scienza anche con poco.

Un'altra cosa che mi sento di sottolineare è che al momento la maggior parte della nostra ricerca rimane all'interno delle mura dell'accademia. Dobbiamo connetterci con l'industria, far ricadere i frutti delle nostre ricerche sulle persone perché così coinvolgeremo il governo e la società a investire e a credere nella ricerca. Questo è quello che stiamo tentando di fare. Di recente abbiamo avuto una conferenza su scienza e tecnologia e abbiamo riflettuto sulla necessità di fare questo. La nostra economia ruota principalmente intorno all'agricoltura e al turismo. Come possiamo fare qualcosa che porti beneficio agli agricoltori e ai prodotti tipici del Nepal?

Quello che ho imparato dalla mia esperienza in Europa e a Padova è che la ricerca è una cultura, una mentalità. E la cosa più importante da fare nel mio Paese è riuscire a stabilire una cultura della ricerca. È un processo che richiede tempo, non basta copiare quello che succede in altri Paesi, dobbiamo sperimentarlo sulla nostra pelle.

Lei come è arrivato ad appassionarsi alla fisica del plasma?

Quando frequentavo le scuole superiori volevo diventare un ingegnere. Poi ai primi anni dell'università mi resi conto che preferivo le scienze pure a quelle applicate e capii che studiando una scienza pura avrei potuto contribuire alla conoscenza e all'innovazione. E durante il mio master all'università di Kathmandu incontrai un professore che studiava fisica del plasma: ci spiegò come questa poteva venire applicata allo studio della fusione nucleare e come era possibile, in linea teorica, ottenere temperature addirittura più elevate di quelle del sole. Durante il mio master andai in India a vedere un tokamak (un'apparecchiatura atta a contenere un plasma termonucleare, ndr) e lì decisi che avrei studiato fisica dei plasmi. All'epoca non era possibile fare un dottorato in Nepal, non c'erano né fondi né posizioni. Applicai allora per un bando del governo austriaco e vinsi il dottorato a Innsbrusk in fisica del plasma. Ma sapevo che se avrei fatto esperimenti non avrei potuto riportare le mie conoscenze in Nepal. Quindi decisi di fare lavoro teorico, principalmente simulazioni al computer, che potei continuare a fare in Nepal. Lo stipendio che prendo ora da Professore è più basso rispetto alla borsa che prendevo in Austria durante il mio dottorato. In molti mi hanno detto: “Ma perché non te ne sei rimasto lì?”. Ma ciò che mi motivava era proprio il fatto che se avessi fatto lavoro teorico avrei potuto portarlo in Nepal, vorrei riuscire a dimostrare che è possibile fare ricerca in Nepal e al contempo vivere bene nel proprio paese.

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