SOCIETÀ

Quanto e come navighiamo? Ce lo spiega Screenomics

Da più di un anno a questa parte tra un telefilm e una Zoom call lo schermo del cellulare è diventato ormai un compagno fedele delle nostre giornate. Forse anche troppo, visto che è risaputo che un'eccessiva esposizione alla luce blu che questi dispositivi emettono rischia di causare danni alla vista e di ostacolare un sonno sereno. Oltre a questo, c'è un fiorente dibattito sui danni psicologici che l'eccessiva digitalizzazione sta portando, in particolare agli adolescenti, più esposti a dinamiche tossiche come il bullismo o la dipendenza da social.

Fino a questo momento le analisi svolte sull'utilizzo dei dispositivi mobili si basavano soprattutto sul tempo trascorso navigando tra i vari siti web o utilizzando i social e altre app, come per esempio i giochi, che per loro natura possono scatenare reazioni di dipendenza perché un piacere momentaneo precede il desiderio spasmodico di provarne ancora. Spesso, però, indagini di questo tipo sono affidate all'autovalutazione, ma chiunque abbia impostato un limite al tempo di navigazione sul suo telefono sa benissimo che tendiamo a sottostimare dati come il tempo di permanenza su app di intrattenimento. Un'altra criticità degli studi precedenti riguarda la mole di informazioni a cui i volontari erano esposti: anche sapendo che, per esempio, erano stati un'ora sui social network, per loro era impossibile ricordare esattamente cosa avessero visto, perché gli stimoli erano troppo numerosi, e quindi individuare la causa degli stati mentali che seguivano la navigazione diventava molto difficile. Studi più dettagliati sono stati svolti nell'ambito del marketing: nel 2019, dopo 15 anni, è uscita la nuova edizione dello studio del Nielsen Norman Group, che restituisce una rappresentazione di come leggiamo online. È interessante notare che la licenza per accedere al contenuto costa 98 dollari (altrimenti si può leggere liberamente una breve sintesi): più avanti accenneremo anche alle dinamiche economiche che possono scatenarsi per accedere a dati di questo tipo.

Per questi motivi secondo gli studiosi di un gruppo della Stanford University questo tipo di approccio non dava abbastanza informazioni, ed era necessario invece indagare come le persone guardano gli schermi durante tutta la navigazione per poter avanzare delle ipotesi su quali danni può portare l'abuso di una tecnologia di questo tipo.
Lo Human Screenome Project ideato da questo gruppo di ricercatori prende quindi in esame variabili diverse rispetto al solo tempo. Byron Reeves, lo psicologo che ha avuto l'idea del progetto, lo ha spiegato nel dettaglio in un articolo su Nature.
Il lavoro si configura come una raccolta di dati mastodontica, visto che tutti i 600 partecipanti allo studio sono stati monitorati in ogni sessione di navigazione. Quando uno dei volontari accendeva il suo dispositivo, partiva un software, chiamato Screenomics, che ogni cinque secondi faceva uno screenshot, che veniva criptato e trasmesso ai ricercatori, dando cosi una rappresentazione diacronica di ciò che appariva sullo schermo, per un totale di 30 milioni di immagini da analizzare.

Screenomics permette anche di rilevare quello che succede su piattaforme diverse, che vengono sincronizzate in modo da seguire le varie sessioni di navigazione dell'utente sia che usi uno smartphone sia che usi un pc. In questo senso i risultati sono più accurati rispetto a quelli restituiti da smartwatch e fitness tracker, ma lo staff sta lavorando a un software ancora più preciso, che possa restituire le immagini di ogni secondo di navigazione invece che ogni cinque.
Grazie a un approccio di questo tipo si possono estrarre varie informazioni, per esempio si potranno fare studi sull'efficacia del multitasking, sulle differenze nell'elaborazione delle informazioni, su quanto la frequenza di accensione influisca su aspetti come l'ansia e lo stress.

Sul sito del progetto è riportato un esempio che chiarisce perfettamente come navighino diversamente due individui che in un questionario di autovalutazione avrebbero invece potuto dare le stesse risposte.
Ma Reeves non si accontenta: secondo lui se vogliamo comprendere fino in fondo quale impatto abbiano sulla nostra psiche gli stimoli che arrivano da un dispositivo tecnologico, è necessario misurare le reazioni fisiche (per esempio il battito del cuore accelerato). Reeves si augura quindi che le aziende che hanno già trovato il modo per raccogliere questi dati (per esempio con uno smartwatch) li possano mettere a disposizione in un sistema integrato con le immagini di Screenomics.
In un periodo in cui i big della Silicon Valley hanno già molte gatte da pelare sul fronte privacy e cookie potrebbero esserci delle difficoltà, ma quello che è certo è che i risultati di un lavoro del genere potrebbero fare gola anche alle altre aziende. Per il momento, quindi, stiamo a vedere: a livello tecnico la cosa sembra più gestibile che a livello giuridico e industriale.

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