SCIENZA E RICERCA

La socialità dei primati potrebbe essere diversa da quella che pensavamo

Fino a oggi si era pensato che l’antenato di tutti i primati appartenesse a una specie solitaria, e che solo in un secondo tempo questa specie avesse sviluppato un’organizzazione sociale. Secondo uno studio apparso su PNAS, invece, le cose non starebbero esattamente così, e la maggior parte dei primati sarebbe invece sempre vissuta in coppia, mentre solo il 10-20% degli esemplari sarebbero stati solitari come si pensava in precedenza.
Questo studio mette in discussione le conoscenze precedenti, quindi prima di trarre conclusioni definitive è bene dare uno sguardo dettagliato alle modalità e alle definizioni utilizzate dai ricercatori per arrivare a questo risultato.
Ne abbiamo discusso con la dottoressa Caterina Spiezio, capo del Dipartimento di ricerca e Conservazione del Parco Natura Viva, con cui abbiamo parlato anche di evoluzione, perché tra questa e la socialità dei primati c’è uno stretto legame, e di come lo studio può essere utile anche per chi si occupa di animali in ambiente controllato, dove è necessario considerare sia le caratteristiche naturali della specie che le esigenze specifiche del contesto e del singolo gruppo.

Servizio e montaggio di Anna Cortelazzo, video interni del Parco Natura Viva

L'analisi condotta nello studio si è basata su una ricerca bibliografica su diversi motori di ricerca, con una selezione dei lavori basata sulla lista dell'IUCN da cui i ricercatori hanno tratto le informazioni sulle diverse specie. Inizialmente, sono stati ricercati gli studi tramite il nome scientifico e comune delle specie, successivamente sono state utilizzate parole chiave relative agli aspetti sociali.
“Questi studi – precisa Spiezio – riguardano tutti primati all'interno del loro ambiente naturale, quindi non in un ambiente controllato come possono essere i giardini zoologici. I ricercatori che hanno analizzato tutti questi studi presenti in letteratura avevano una domanda iniziale cioè se effettivamente si potesse riscontrare la veridicità del fatto che il primate arboricolo ancestrale di tutti i primati fosse effettivamente appartenente a una specie solitaria”.

Complessivamente sono stati analizzate oltre 493 popolazioni di  215 specie di primati ed è stata fatta un’analisi della loro socialità grazie a questo dataset molto ampio. Prima di procedere all'analisi statistica, nello studio sono stati ridefiniti alcuni concetti come quello di "popolazione". In questo contesto, "popolazione" non si riferisce alla totalità degli individui di una specie in un'area geografica che possono accoppiarsi e interagire tra di loro (questa è la definizione canonica), ma piuttosto agli animali osservati in uno specifico studio condotto in quella zona specifica. “È quindi – spiega Spiezio – un gruppo di individui più ridotto, composto solo da quelli analizzati nei vari studi”.
Un altro concetto ridefinito è quello di "unità sociale" all’interno della popolazione, che di solito fa riferimento a individui che interagiscono tra loro, mentre in questo caso ci si riferisce solo a una sovrapposizione spaziale: gli individui che foraggiano, cioè ricercano cibo, nella stessa zona e condividono siti di riposo per la maggior parte del tempo osservato, con "maggior parte" intesa come più del 50% del tempo durante il periodo dello studio (che poteva variare da mesi ad anni) e che, precisano gli studiosi, era quasi sempre inferiore al 75%.

Si parla quindi di “coppia” anche in assenza di interazioni dirette, perché la condizione per definire la coppia è spaziale e non interattiva. Lo studio, tra l’altro, non si è limitato a reperire i dati delle singole specie, ma ha indagato anche quale fosse il comportamento delle diverse specie tra di loro, il che è una novità nel panorama scientifico. Lo studio ha insomma reinterpretato dei concetti chiave riguardanti la socialità dei primati basandosi su una vastissima analisi della letteratura scientifica, proponendo una visione alternativa rispetto agli approcci precedenti.

“Questi ricercatori – spiega Spiezio - hanno considerato aspetti che vanno a differenziare non solo le diverse specie tra loro o le diverse popolazioni tra loro, ma anche all'interno della stessa popolazione dove hanno osservato la varietà di aspetti sociali presenti all'interno del gruppo sociale da loro osservato. A questo punto diventa importante comprendere che cosa loro hanno definito all'interno della loro analisi statistica per andare a ricercare gli aspetti legati al primate arboricolo ancestrale: hanno definito solitario l'individuo che vive da solo e che non ha interazioni, ma non ha neanche sovrapposizione del territorio con gli altri individui”. Il che implica, insomma, che sia piuttosto difficile risultare solitari, esattamente come, negli studi precedenti, risultava molto più facile, perché venivano considerati solitari anche animali che, semplicemente, cercavano cibo in solitudine ma poi condividevano lo stesso spazio. In realtà tra 19 popolazioni di foraggiatori solitari appartenenti a diverse specie, solo 9 avevano una vita solitaria come forma primaria di organizzazione sociale, mentre le restanti 10 popolazioni condividevano spesso lo stesso territorio.

Anche il tipo di socialità presa in considerazione è molto diversa, e va dalle coppie vere e proprie (maschio + femmina), ai gruppi multifemale (tante femmine e un solo maschio), ai gruppi con tanti maschi e una sola femmina fino a gruppi con vari membri di entrambi i generi. “Se pensiamo – aggiunge Spiezio – ai gelada, per esempio, troviamo gruppi molto numerosi al cui interno si formano dei sottogruppi con un maschio dominante e più femmine o con molti maschi, in cui quindi la socialità è molto complessa. In questo caso però si andava a confrontare tra di loro diversi studi, con quantità diverse di ore di osservazione, ed era quindi necessario trovare un modo per normalizzare, cioè rendere comparabili, i diversi dati raccolti dai diversi studi e in questo caso quindi è stata definita una porzione di tempo corrispondente ad almeno il 50%”.

A parte gli aspetti sociali, lo studio ne ha considerati anche altri, che potrebbero essere messi in relazione con i primi. Un esempio sono le abitudini eco-etologiche delle specie, cioè quelle che si riferiscono al comportamento e alle interazioni di quella specie con il suo ambiente naturale, per esempio le abitudini legate alla sopravvivenza, alla ricerca di cibo, alla riproduzione, alla difesa del territorio e ad altri aspetti della vita quotidiana dell'animale.
In questo caso i ricercatori hanno distinto le specie notturne e diurne, e hanno fatto un’ulteriore differenziazione per le dimensioni e per l’habitat (foresta o spazi aperti). “Dai risultati ottenuti in passato – spiega Spiezio – sembrava che le specie più solitarie fossero quelle notturne, e quelle che vivevano nella foresta”.
C’è da dire che lo studio si è concentrato maggiormente sugli animali diurni: ha incluso solo 30 delle 119 specie notturne rispetto alle 192 delle 325 specie diurne, ma il risultato è comunque innovativo: la maggior parte dei primati notturni viveva in coppia (sempre tenendo presente le definizioni iniziali).

Questo studio offre un altro spunto interessante, perché va a evidenziare il legame tra evoluzione e socialità: “In presenza di socialità complesse – chiarisce Spiezio – la trasmissione delle informazioni non avviene più solo da madre a figlio, in maniera verticale, ma esiste la possibilità di trasmissione orizzontale tra compagni di gioco. Attraverso la capacità di innovare, che può avvenire grazie all’apprendimento individuale per tentativi ed errori, si ha la manifestazione di un nuovo comportamento che può essere trasmesso più facilmente al resto della specie in un contesto sociale di gioco, ad esempio, permettendo l’adattamento a nuove situazioni. Avere dei gruppi numerosi, infatti, favorisce l’adattamento della specie per affrontare i cambiamenti ambientali, diffondendo nuove informazioni all’interno del gruppo sociale, e questo dà la possibilità alla specie di sopravvivere anche ai cambiamenti più repentini e drastici”.

Lo studio poi è particolarmente importante per le persone che, come Spiezio, lavorano in strutture zoologiche, perché si rapportano proprio a una “popolazione” intesa nel senso utilizzato dai ricercatori. “I risultati di questo studio – chiarisce Spiezio – portano a dire che nella socialità dei primati non umani c’è una grande varietà, non soltanto tra le diverse specie e le diverse popolazioni, ma anche all’interno della popolazione tra i diversi gruppi. E se c’è varietà vuol dire che c’è una maggiore adattabilità a determinate situazioni. Negli studi precedenti troviamo soprattutto le caratteristiche sociali peculiari della specie, ma poi gestire i piccoli gruppi è un altro discorso, si pensi anche solo alla movimentazione degli individui tra le diverse strutture zoologiche, dove c'è un coordinatore della specie a livello europeo che movimenta gli individui seguendo quella che in natura è la dispersione naturale dal gruppo sociale del singolo individuo, che si allontana raggiunta la maturità sessuale e che qui deve essere scelto dal coordinatore della specie. Questo è possibile in alcuni contesti mentre in altri contesti è più complicato”.
La dimostrazione delle variazioni di socialità all’interno dei diversi gruppi, ben documentata dallo studio, può portare a strategie innovative all’interno delle strutture zoologiche, perché dà un assist per osservare e studiare ogni gruppo come a sé stante, considerando la specie di appartenenza meno dirimente rispetto a ora, e prendendo decisioni che potranno aiutare a gestire i diversi gruppi sociali.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012