CULTURA

Sullo scaffale: Aria di famiglia di Alessandro Piperno

Alessandro Piperno è tornato.

Sono passati solo tre anni dal suo ultimo romanzo (Di chi è la colpa, Mondadori 2021) ma, alla velocità con cui s’impongono le mode letterarie, ci siamo nel mentre così assuefatti a libri che inseguono le abitudini della “bolla” (editoriale) da una parte, e della massa dall’altra, che il fatto di trovarsi sotto gli occhi un romanzo d’impronta classica e dalla libertà sfrontata come Aria di famiglia (Mondadori, 2024) fa tirare un respiro di sollievo.

Cos’ha dunque di speciale l’ultima fatica dello scrittore che ha vinto lo Strega con Inseparabili nel 2012 e il Campiello opera prima per Con le peggiori intenzioni nel 2005? La domanda è mal posta. Non ha nulla di eccezionale: è un romanzo tout court, con tutti gli ingredienti che servono perché sia un gran bel romanzo.

A partire dal protagonista: un professore universitario di letteratura francese, scrittore affermato, ebreo, di mezz’età, dalle idiosincrasie caratteristiche di chi abita il mondo con un discreto occhio critico e nessuna voglia di mediare con le richieste del tempo presente. Sacerdoti non è sposato, non ha figli, abita in una grande casa elegante e piena di libri e un malaugurato giorno viene convocato dalla “commissiona paritetica” della sua università perché – pare – abbia infranto un qualche tacito codice di comportamento. L’errore che ha compiuto, scopre, è quello di aver citato, in un corso su Flaubert, alcune frasi apparentemente misogine dello scrittore, convinto (come un tempo era forse lecito fare) che la cultura riconosciuta non debba essere sottoposta al vaglio della sensibilità corrente.

“Forse, in un’altra stagione dell’esistenza, quando insegnare era ancora una parte importante della mia vita, quando a ogni buon conto c’era la scrittura a lenire le insoddisfazioni, pur di proteggere l’avamposto accademico e il piccolo prestigio artistico avrei lasciato correre, consentendo a questi bastardi di inchiodarmi a responsabilità demenziali e di farmi a pezzi. Purtroppo quel ragazzo contrito e morigerato non esisteva più. Il mezzo secolo che gravava sulle sue spalle, disseminato com’era di reticenze e inganni, gli conferiva un diritto che mai avrebbe sognato di avere: il diritto di esprimersi”.

Piperno, inventando quest’io narrante caustico e libero, decisamente politicamente scorretto, che potrebbe rischiare di suonare fastidioso e invece fa venire voglia al lettore di fare il tifo per lui, si prende la licenza di guardare al nostro presente come se lo stesse osservando da lontano, quasi fosse un cubo di Rubik, e a tratti di sfidare quel sentire comune fatto di obbedienze a imperativi etici, culturali, religiosi tanto sensati quanto, forse, un po’ dogmatici ( “Passi la vita a proteggerti dalla volgarità. E non parlo mica della volgarità ordinaria, quella che ti investe ogni volta che scendi in strada, apri un giornale, consulti uno smartphone. Ma quella assai più subdola imposta dallo Zeitgeist: la volgarità filistea di benpensanti e moralizzatori. Hai un bel dirti che con un po’ di avvedutezza saprai come schivarla. Be’, prega Iddio che non sia lei a scovarti. Se lo fa, sei fritto!”).

Il professor Sacerdoti viene quindi sospeso (“è convinto che non ci sia niente di più sacro del canone. In nome di questa fede, è disposto a mettere in circolazione le idee più retrive che possiate immaginare”), minacciato di querela, dileggiato dal pubblico, costretto a reinventarsi in un periodo della vita in cui anche la sua ispirazione come scrittore è in secca.

Prima di lui abbiamo conosciuto altri professori che hanno segnato la storia della letteratura per essersi sporcati di una colpa, da Coleman Silk di Philip Roth ne La macchia umana a David Lurie del premio Noble J.M. Coetzee in Vergogna, ma Sacerdoti è diverso: è come non si prendesse mai maledettamente sul serio ma, di relativo buon grado, incassasse i colpi senza smettere di affinare lo sguardo critico sull’umanità e su se stesso: “Un paria della società, ecco in cosa mi ero trasformato. A sconvolgermi non era l’odio che il figlio di Valentina provava per un uomo che, occorre dirlo, aveva fatto ben poco per rendersi simpatico, ma che il suddetto odio non sembrasse avere niente di personale. Era un odio generico, pregiudiziale, ideologico. Per certi versi storico, e quindi indipendente da chi lo ispirava. Dubito che avrei avuto modo di redimermi agli occhi del ragazzo. E il guaio era proprio questo: di gente così era fatto il mondo”.

Lo stesso Piperno è affezionato a storie di caduta, a partire da quella di Leo Pontecorvo che lo scrittore romano ha raccontato in Persecuzione, ma se in quel romanzo era molto più pesante e marcata la cappa della tragedia, in Aria di famiglia si respira un forte senso di rinascita.

Immaginiamo infatti cosa potrebbe succedere al professor Sacerdoti, diventato sostanzialmente squattrinato e disoccupato, se all’improvviso si trovasse a essere l’unico parente a potersi occupare di un bambino, e poi ragazzino, rimasto orfano dei genitori, ebreo osservante, tifoso del Tottenham, diffidente ma, evidentemente, come tutti i bambini, portatore dell’irruenza del mondo presente. Accadrebbe invero qualcosa di molto romantico, soprattutto per un uomo dal cinismo di Sacerdoti: arriverebbe l’amore. Ma non quello sdolcinato che Sacerdoti (e Piperno forse) dileggerebbero, ma quello violento, nascosto, ancestrale, ruvido, fatto di mediazioni, corse, silenzi, cose da fare, bronci, liti e risoluzioni (“Ero ebreo? Forse sì, piccolo impiccione, o forse no. Di una sola cosa ero certo: non era stata ancora inventata la religione che mi avrebbe impedito di godermi un club sandwich”) e questo sentimento porta il nome di amore paterno.

E se poco importa sottolineare che così come Inseparabili è di fatto il prequel di Persecuzione, Aria di famiglia porta sulla scena – è lo scrittore stesso a dirlo – il protagonista, cresciuto, di Di chi è la colpa, a rilevare un’abitudine dello scrittore a meditare e conservare per anni le storie che inventa; più gustoso, forse, potrebbe essere domandarsi quanto ci sia in questo libro di Piperno stesso (con cui il protagonista condivide diverse note biografiche, compreso, come si scopre nelle ultime pagine, il nome di battesimo).

Be’ è una curiosità sciocca: Piperno e Sacerdoti non sono scrittori da autofiction, e poi, si sa, domandarsi quale sia il confine tra verità e finzione nel romanzo non ha, davvero, nessun senso.

Di una sola cosa ero certo: non era stata ancora inventata la religione che mi avrebbe impedito di godermi un club sandwich Alessandro Piperno

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