CULTURA

Sullo scaffale: Cuore nero di Silvia Avallone

Cuore nero (Rizzoli, 2024) è il romanzo migliore di Silvia Avallone, autrice dell’indimenticabile Acciaio, esordio dato alle stampe quando aveva da poco compiuti 26 anni e che la ha consacrata scrittrice (Premio Campiello, Flaiano, Fregene e seconda allo Strega nel 2010).

Questa sua ultima quinta fatica torna su temi cari alla scrittrice, tipicamente un chiaroscuro dell’anima incastonato in corpi di giovane bellezza e la difficile trasformazione dell’individuo da adolescente ad adulto, ma stavolta Avallone lascia il lido del romanzo di formazione puro per addentrarsi nella contraddizione delle menti mature abbastanza. Per fare cosa? Per dare un senso al proprio esistere. Per definirsi e trovare la propria strada. Per camminare nel mondo tra gli altri. Eppure tutto questo Bruno ed Emilia, protagonisti della storia, non lo sanno fare.

Vivono a Sassaia, paese pressoché disabitato raggiungibile da uno sterrato, e che hanno scelto come luogo elettivo per riuscire a restare. Emilia, accompagnata nel suo esilio da un padre meditabondo che poi se ne va, rompe il silenzio della valle e scatena l’animo sopito di Bruno, maestro elementare di una pluriclasse. Diventano come due carte da gioco appoggiate l’una all’altra, i due ragazzi poco più che trentenni, desiderosi di vivere senza essere visti. Bruno si nasconde dietro a una barba che non permette ai suoi alunni nemmeno di indovinare quanti anni abbia, Emilia non riesce a dormire senza ascoltare a vuoto le voci della televisione, che laggiù, nella casa ereditata da una vecchia zia, non c’è neppure. E allora tocca a Bruno pronunciare quelle parole che la quietino. Ma “le parole non servono a niente, […] i disegni sì. Una linea retta, una curva, un cerchio, sono fedeli alle cose. Rispettose dei loro limiti, di quello che non si vede sotto la superficie e fa tanto male: non si accaniscono con le definizioni, i disegni”.

Una linea retta, una curva, un cerchio, sono fedeli alle cose. Rispettose dei loro limiti, di quello che non si vede sotto la superficie e fa tanto male: non si accaniscono con le definizioni, i disegni Silvia Avallone

È Bruno la voce narrante della storia e ricostruisce in retrospettiva i fatti di Sassaia e quelli che li hanno incastonati entrambi in quelle definizioni che loro per primi applicano a sé stessi e di cui vorrebbero liberarsi. L’unica soluzione che sanno trovare è invece il silenzio.Parlami di era una locuzione che [Emilia] non riusciva più a sopportare. Non solo doveva pagare ma anche parlare. E il secondo verbo era decisamente peggio del primo”.

Silvia Avallone scrive una storia intrisa di male. Il lettore l’intuisce immediatamente. La parola morte è solo sussurrata (e la parola colpa aleggia mai pronunciata) ma ciò che non viene detto pesa più di quanto invece è reso esplicito. È la banalità del male che ci ha insegnato Hanna Arendt?

No: Emilia e Bruno sono consapevoli, ciascuno da par suo, che quello che li riguarda è enorme e irreparabile. E da questa verità sono schiacciati.

La grandezza della scrittura di Avallone sta nella capacità di conservare la sua cifra, che è quella di raccontare la vita – che nasce, si dispiega senza che ci sia un disegno e può scivolare nell’abisso –, e al contempo di scandagliare il mistero. È maestra nel non disvelare mai prima del tempo. Dell’indugiare su una luce, un paesaggio, un dialogo e intanto costruire una storia con un meccanismo perfetto. Perché Avallone non dimentica mai di essere una narratrice.

In questo suo nuovo romanzo trovano spazio le paure degli adulti: così come nei precedenti venivamo immersi nel desiderio di maternità, nel senso di soffocamento degli adolescenti, nel percorso di emancipazione inconsapevole di chi si sente ebbro, facendoci ogni volta riscoprire affamati di riconoscere un pezzo di noi, in questo straordinario romanzo Avallone ci mette davanti allo spauracchio per antonomasia: il cambiamento. Sappiamo dire chi siamo? E chi siamo stati fino a ieri fa ancora parte di noi oggi? Quello che desideriamo adesso cancella quello che abbiamo voluto prima? C’è un modo per arrestare il fluire del tempo?

“Non siamo i nostri traumi” dice Emilia a Bruno. “Il risultato di quello che abbiamo commesso o subìto. Il passato non coincide con il punto in cui ci troviamo adesso. Siamo altrove. Non lo sapevo fino a oggi. Poi tu mi hai raccontato quello che credevi fosse tutto. Mi hai spiegato perché sei solo, perché vivi a Sassaia, ma questa è solo una parte, conclusa, finita. Ne è già iniziata un’altra. Anche la verità cambia”.

Esiste salvezza, dunque? Avallone non pronuncia risposta, ma pare di vederla annuire.

Anche la verità cambia Silvia Avallone

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