CULTURA
Razza. Un concetto inutile
Foto: Reuters/Siegfried Modola
“Nella nostra specie non c’è alcuna giustificazione razionale e nessuna utilità pratica per continuare a tenere in vita il concetto di razza e tanti ottimi motivi per abbandonarlo una volta per sempre”. Con questa considerazione si chiude Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo (Laterza) di Guido Barbujani, docente di Genetica all’Università di Ferrara. Il libro è nella cinquina del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica, undicesima edizione, ed è ora protagonista del primo degli incontri con gli autori finalisti, a Palazzo Moroni a Padova, oggi, 9 marzo: alle 11.30 l’appuntamento con le scuole, alle 18 con il pubblico.
“Gli africani siamo noi è una sintesi delle nostre conoscenze - spiega il professor Barbujani intervistato da Il Bo - Ho scelto questo titolo perché, fino a qualche tempo fa, i temi dell’evoluzione dell’uomo e delle sue migrazioni erano al centro di un dibattito che coinvolgeva un centinaio di scienziati come me che si ritrovavano ai congressi, discutevano e anzi litigavano, perché gli scienziati litigano, si sa. Adesso, invece, se ne parla ampiamente sui giornali, perché il tasso di immigrazione è cresciuto e tutti ci chiediamo quali saranno le conseguenze. Contribuire a sfatare qualche falso mito, per esempio che la migrazione sia un fenomeno recente, mi sembrava doveroso”.
Professore, com'è strutturato il libro?
“In questo libro ho sistemato tre storie: la prima si concentra sull’evoluzione umana dalle origini ai giorni nostri, però per renderla chiara ho dovuto raccontare anche la storia delle scoperte e delle teorie scientifiche che hanno permesso di arrivare a delle conclusioni e, naturalmente, mi sono imbattuto, e qui sta la terza storia, in abusi della scienza per finalità che non hanno niente a che vedere con la comprensione dei fenomeni. Quindi ho dovuto fare un lavoro di approfondimento soprattutto storico”.
I nostri antenati erano africani, questo l'abbiamo capito . Ma, restando alle origini, troviamo anche i Neanderthal, a cui lei dedica più di una pagina…
“Il tema dei nostri rapporti con i Neanderthal è diventato di grande attualità, perché ora riusciamo a leggere il genoma di queste creature. Ne sono emerse teorie molto innovative: fino a cinque anni fa la gran parte di genetisti e antropologi le avrebbe detto che i Neanderthal stavano in Europa ma che noi non siamo loro, oggi invece si parla di possibile ibridazione. A me quest’ultima ipotesi non convince del tutto e ho quindi colto l’occasione per sollevare dei dubbi o almeno cercare di fare luce su alcuni punti oscuri”.
Lei scrive: “La scienza ci costringe continuamente a rivedere le nostre convinzioni, e per ogni domanda a cui fornisce una risposta solleva molte nuove domande”. Tutto, dunque, può essere ridiscusso, ribaltato, smontato, ma quello che oggi possiamo affermare con certezza è che le razze non esistono, esiste solo la specie umana. Ma, professore, se gli scimpanzé si dividono in razze mentre i tonni pinna gialla no, che cosa significa? Che assomigliamo ai tonni?
“No, noi siamo molto più scimpanzé che tonni pinna gialla e questo ce lo dice il Dna, però la nostra grande mobilità ci apparenta di più ai pesci marini e agli uccelli, che coprono grandi distanze, e meno agli scimpanzé che si spostano poco. In pratica, le razze si formano quando un gruppo è molto stanziale e tende a disperdersi poco: noi non abbiamo avuto questo comportamento anzi, nel giro di poco tempo, dall’Africa ci siamo distribuiti su tutto il pianeta”.
Oggi sappiamo che l’81% delle varianti del nostro Dna sono cosmopolite, cioè presenti in tutti i continenti.
“Sì, a frequenze diverse. Nel libro faccio riferimento al gruppo sanguigno 0 come variante cosmopolita. Se di una persona sappiamo che è di gruppo sanguigno 0, sappiamo anche che può venire da qualsiasi continente, perché quel gruppo sanguigno c’è dappertutto”.
La risposta sta nel movimento?
“Certo. Noi analizziamo delle ossa e da queste ossa otteniamo il Dna, ma queste ossa stanno in un punto. I nostri antenati, anche se in questo periodo si parla tanto di radici, non hanno mai avuto radici ma piedi, quindi quando noi analizziamo delle ossa trovate in un certo posto non significa che quella persona non provenisse da altri luoghi in precedenza. Ci sono tantissimi dati, oggi bisogna capire che cosa questi dati significhino. Forse questo è un altro tema del libro: la genetica ha fatto enormi passi avanti negli ultimi tempi, ma qualunque tecnologia, anche la più sofisticata, non rimpiazza il dibattito delle idee. Fornisce materiale al dibattito ma, alla fine, le conclusioni che traiamo sono frutto di un processo intellettuale, non sono scritte nei dati”.
Non solo divulgazione scientifica, ma anche approfondimento storico: nel suo libro si viaggia nel tempo, dal catalogo scientifico delle razze umane proposto da Linneo nel Settecento fino agli studi dell’antropologo Frank Livingstone, che fu il primo a ragionare in termini differenti e, nel 1962, scrisse l’articolo Sulla non esistenza delle razze umane.
“Queste classificazioni razziali, partendo proprio da quella di Linneo, erano considerazioni descrittive che ammettevano anche la possibilità che da una razza all’altra si potesse transitare. Chi rende davvero radicate le razze nel sangue è il francese Joseph Arthur De Gobineau, che scrisse un saggio sull'ineguaglianza delle razze umane. Da quel momento in poi, appartenere a una certa razza significò anche assumere un valore diverso dagli appartenenti a un’altra. Quindi, da De Gobineau in poi, non si trattò più di un esercizio di classificazione biologica ma di una operazione di ingegneria sociale, di giustificazione delle disuguaglianze nella società su base biologica. I primi classificatori forniscono ai razzisti il materiale su cui poi basare scientificamente le loro opinioni politiche e sociali”.
A un certo punto, lei parla di farmacologia razziale...
“Sì, è una questione piuttosto inquietante. Soprattutto negli Stati Uniti d’America si è fatta spazio questa idea che razze diverse meritino trattamenti farmacologici diversi. Un’idea che, come al solito, si basa su qualcosa di vero e qualcosa di falso. È vero che ci sono grandi differenze individuali nel modo in cui i farmaci attraversano il nostro organismo: se io e lei, partendo dagli stessi sintomi, prendiamo le stesse medicine non è detto che arriveremo a ottenere gli stessi risultati. L’errore della farmacologia razziale è di pensare che, siccome io e lei siamo entrambi veneti, abbiamo gli stessi geni. Questo non è vero ed è basato su un’idea ottocentesca della razza che la scienza del ventesimo secolo ha smontato. Questa farmacologia razziale, priva di qualsiasi base scientifica, si sta diffondendo”.
La scienza e la storia ci aiutano ad affrontare le trasformazioni sociali fornendoci qualche strumento in più.
“Leggere il passato per comprendere il presente. Non l’ho detto io, ma credo sia proprio questo il punto: è necessario studiare pezzi anche remoti della nostra storia per capire bene quello che ci sta succedendo”.
Alla fine del libro, Barbujani scrive: “Uno scienziato responsabile deve tenere gli occhi aperti, cioè essere consapevole delle applicazioni concrete e delle implicazioni sociali delle proprie ricerche; deve mettere le sue competenze a disposizione di chi ne ha bisogno, sforzandosi di rendere comprensibili i propri risultati, perché questi risultati possono avere un impatto, e a volte un impatto disastroso, sulla vita degli esseri umani”.
Francesca Boccaletto