SOCIETÀ

La ricetta per far decollare le imprese

Il nuovo ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, si è posto un po’ di domande, qualche giorno fa, all’Assemblea 2018 di Confcommercio: come generare crescita economica, innovazione e nuovo lavoro in Italia? E, rispondendo, ha mostrato di avere le idee chiare: “La ricetta per fare decollare le imprese che creano lavoro, sviluppo, nuove tecnologie nella loro crescita è lasciarle in pace”.

Le idee sono chiare, ma forse sono sbagliate

Le idee sono chiare. Ma forse sono sbagliate. La storia dell’economia dimostra, infatti, che non funzione così. Non basta lasciare in pace le imprese perché realizzino un cambiamento di specializzazione produttiva. Il mercato da solo non ce la fa.

 

Non lo diciamo noi. Lo sosteneva, oltre settant’anni fa, Vannevar Bush, il consigliere scientifico del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt: l’uomo che può (deve) essere considerato – per via di quel suo rapporto reso pubblico a inizio dell’estate 1945, Science, the Endless Frontier uno dei padri della moderna economia della conoscenza. Ovvero, della moderna economia tout court.

In realtà le domande poste, giustamente, da Luigi Di Maio se le erano poste, negli Stati Uniti, ben prima di Vannevar Bush. Dopo la Grande Guerra, infatti, molti nella giovane e ambiziosa potenza iniziarono a porsi domande di fondo sul futuro. E, quindi, sul rapporto tra la scienza, l’innovazione tecnologica, l’economia e la società. Perché, malgrado la sua dinamicità, negli anni ’20 del XX secolo il sistema produttivo degli Stati Uniti d’America è ancora debole? Perché l’Europa produce beni di qualità ancora superiore? Deve forse intervenire il governo federale lì dove sta fallendo il libero mercato? E se sì, come? 

È anche a queste domande che, nel corso dei roaring twenties, i ruggenti anni ’20, in un periodo di crescita economica, tenta di dare risposta un segretario al Commercio interessato alla “modernizzazione dell’economia”: il repubblicano Herbert Clark Hoover, ingegnere minerario, miliardario e teorico di un pensiero economico, l’associazionalismo, fondato sull’idea che per rendere, appunto, più moderna l’economia, le imprese devono collaborare sia tra loro sia con lo Stato in maniera più intensa, anche se su base assolutamente volontaria.

L’analisi di Hoover, che assume la guida del Department of Commerce nel 1921 e la conserva fino a quando sarà eletto presidente degli Stati Uniti, nel 1928, è chiara:

  1. il sistema produttivo americano è debole perché non si fonda sull’innovazione tecnologica e sulla ricerca scientifica;
  2. non basta lasciare in pace le imprese, perché il mercato non ha la capacità di superare in maniera spontanea questa debolezza intrinseca;
  3.  l’incapacità dipende da un eccesso di competizione tra le imprese, che non si associano e quindi non raggiungono la massa critica sufficiente per produrre in maniera sistematica nuova conoscenza e nuove applicazioni della conoscenza.

L’analisi di Hoover è corretta. Ma le azioni, anche quando diventerà presidente degli Stati Uniti d’America, non sono coerenti. Volutamente. Per un semplice motivo: nella cultura americana l’intervento dello stato federale deve essere ridotto al minimo. Bisogna, appunto, lasciare in pace le imprese. Farle fare.

Quindi, anche se sarebbe necessario far intervenire lo stato federale per cambiare la specializzazione produttiva del paese e innovare, non se ne fa nulla. L’Amministrazione non può tradire la cultura del non intervento dello stato in economia. E nelle libere università.

Il presidente Hoover è coerente. E, infatti, quando arriva la crisi del ’29, resta fedele al suo credo. Lunghe file di disoccupati affamati in cerca di un pasto presso organizzazione caritatevoli ridisegnano il paesaggio delle città americane.

Sarà Roosevelt a cambiare paradigma, con il New Deal, e a creare le premesse per il rilancio dell’economia Usa, che sarà poi accelerato dalla Seconda guerra mondiale.

Ma la domanda resta. Anche se più ambiziosa. Come far sì che gli Stati Uniti, a conflitto finito, assumano la leadership non solo militare, ma anche economica del mondo?

È a questa domanda che risponde Vannevar Bush. Purtroppo Roosevelt non può ascoltarla, perché muore due mesi prima della stesura del rapporto Science, the Endless Frontier. Il rapporto è lungo, ma neppure troppo: 70 pagine. Andrebbe letto riga per riga. Ma noi proviamo a riassumerlo in quindici punti. I quindici punti di un programma di governo per lo sviluppo.

  1. Il Paese ha bisogno di innovazioni costanti. L’innovazione continua è necessaria anche in campo economico. Perché crea lavoro e ricchezza sostenibile. Una delle nostre speranze – scrive Bush riferendosi agli USA, ma dovremmo riprenderle noi queste parole riferendoci all’Italia di oggi  è di avere un regime di piena occupazione e un tenore di vita più alto grazia alla produzione di beni e servizi di qualità. Per innovare abbiamo bisogno di tutte le energie creative e produttive del nostro paese.
  2.  Dobbiamo cambiare la specializzazione produttiva del Paese. Dobbiamo puntare su nuove industrie ad alta tecnologia e capaci, appunto, di innovazione continua. Perché “non otterremo nulla rimanendo immobili, continuando a produrre gli stessi articoli venduti a prezzi uguali o più alti. Non avanzeremo nel commercio internazionale se non offriremo prodotti nuovi, più appetibili e meno costosi”.
  3.  La scienza è la leva principale per il cambiamento della specializzazione produttiva. Perché solo la scienza, con la sua capacità di produrre nuova conoscenza in maniera incessante, genera innovazione continua.
  4. La storia recente ha dimostrato che la scienza assolve a questo compito. Bush, che era il responsabile primo del Progetto Manhattan, faceva riferimento sia alla storia della bomba atomica (ormai pronta, non ancora usata su Hiroshima e Nagasaki), sia alla messa a punto degli antibiotici, che consentivano ai soldati americani di non morire per banali infezioni contratte sui campi di battaglia di mezzo mondo. Oggi la storia dimostra che la scienza e, più in generale, la conoscenza sono alla base dei due terzi dell’economia mondiale.
  5. Per lo sviluppo del Paese occorre un flusso costante e sostanziale di nuova conoscenza scientifica frutto di un gioco di squadra che deve coinvolgere l’intera nazione. Occorrono più fondi, ma anche più università e, soprattutto, luoghi particolarmente adatti all’innovazione. Ambienti creativi. È l’intero paese che “deve crederci”.
  6.  Ma ha un’importanza decisiva la scienza di base. Occorre puntare prima e sopra ogni altra cosa sulla scienza fondamentale. Quella generata dalla curiosità degli scienziati e non da un obiettivo pratico immediato. Perché è la scienza di base che, nel medio e lungo periodo, crea più innovazione. E che, già nel breve periodo, crea il clima adatto all’innovazione.
  7.  Un paese padrone del proprio destino non può dipendere dall’estero per la produzione di nuova conoscenza di base. È miope pensare: “La ricerca la fanno gli altri e io compro il know how”. Questa idea crea dipendenza e mortifica la creatività. Alla lunga (ma anche a breve) è un’idea perdente. Ne sa qualcosa il Giappone, che per un certo periodo ha cercato (con successo) di applicare le idee nuove generate da altri e poi ha dovuto constatare una carenza di creatività del suo sistema produttivo.
  8. L’impresa privata non ce la fa a sostenere la ricerca di base. Le imprese private chiedono risultati certi e immediati. L’esatto contrario di quanto richiede una buona ricerca di base (o, come la chiamiamo oggi, curiosity-driven, diretta dalla curiosità).
  9. Per lo sviluppo economico fondato sulla conoscenza occorre che intervenga lo Stato a finanziare la ricerca, salvaguardando sempre la ricerca di base. Non ci sono scappatoie. Senza l’intervento pubblico non è possibile creare le condizioni per la ricerca motivata dalla curiosità.
  10. Lo sviluppo tecnologico deve essere tutto a carico delle imprese. Sono i privati che devono essere capaci di trasformare la conoscenza scientifica in beni e servizio commerciabili. Lo stato non deve finanziare la ricerca delle imprese. Lo stato, tuttavia, può evocare una forte domanda di beni e servizi ad alto contenuto di conoscenza aggiunto, per favorire lo sviluppo di imprese hi-tech.
  11. Occorre un programma nazionale. Occorre una politica nazionale che non è solo una politica della ricerca ma è anche una politica economica. Il mercato da solo non ce la fa.
  12. Occorre aumentare il capitale scientifico del paese aumentando il capitale umano. Occorrono non solo più fondi per la ricerca, ma anche più uomini per la ricerca. E queste risorse umane non possono che venire dalle università. Occorrono dunque università che accolgano un numero crescente di studenti e diano loro una formazione di alta qualità.
  13. Conta solo il merito. Per selezionare gli scienziati migliori e i progetti di ricerca da finanziare occorre puntare su un unico fattore: il merito. Occorre scegliere i migliori. Ma occorre anche che il bacino entro cui si sceglie sia accessibile alle menti migliori. Per cui occorre che i ragazzi più bravi abbiano facile accesso ai centri di formazione, a prescindere dal reddito delle loro famiglie, dal genere, dal luogo di provenienza, dall’etnia, dal credo religioso.
  14.  Occorre rimuovere le barriere. Ci sono molti ostacoli, culturali e burocratici, che impediscono ai migliori, locali o stranieri, di fare ricerca e di partecipare allo sviluppo scientifico del paese. Questi ostacoli vanno sistematicamente rimossi.
  15. Occorre un’agenzia nazionale per la ricerca. Occorre un centro unico di coordinamento – un’agenzia nazionale della ricerca – che, in piena autonomia scientifica, indirizzi il lavoro e assegni i fondi sulla base del merito.
Il programma ha trovato applicazione in così tanti paesi da assurgere, ormai, a vero e proprio “manifesto dell’era della conoscenza”

Questi 15 punti esprimono, in sintesi, il programma di Vannevar Bush che ha informato di sé la politica scientifica ed economica (sottolineiamo economica) consegnando agli Stati Uniti la leadership tecnologica ed economica mondiale. Il programma ha trovato applicazione in così tanti paesi da assurgere, ormai, a vero e proprio “manifesto dell’era della conoscenza”.

Il programma, con i suoi 15 punti, è una ricetta per la rinascita del nostro Paese. L’unica ricetta, forse, che abbiamo. La consegniamo al nuovo governo.

Con una postilla. Cui neppure Vannevar Bush aveva pensato. Riguarda il punto 10. Lo sviluppo tecnologico deve essere tutto a carico delle imprese. Sì, ma a patto che lo stato proponga progetti di sviluppo in modo da evocare una forte domanda di innovazione. Negli Stati Uniti hanno assolto a questo compito negli anni ’60 lo spazio e a partire dagli anni ’70 la biomedicina. Ricordate la conquista della Luna indicata da John Kennedy all’inizio degli anni ’60 per rispondere allo “schiaffo dello Sputnik”? E ricordate la “guerra contro il cancro” dichiarata da Richard Nixon dieci anni dopo? Sono due esempi di grandi progetti finanziati dallo stato, cui certo non mancavano connotazioni anche politiche, che hanno favorito lo sviluppo di “nuova industria”.

Noi non dobbiamo andare su Marte (non da soli, almeno), né possiamo affrontare da soli il problema delle grandi malattie degenerative. Ma di progetti possibili che evochino una domanda di innovazione ne possiamo elencare a bizzeffe. Potremmo partire, per esempio, dalla tutela del patrimonio culturale; dalla prevenzione del rischio sismico e idrogeologico; dalla ricerca integrata sull’età anziana. Tutto, insomma, tranne che lasciare in pace le imprese.

 

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