SOCIETÀ
Salario basso? Ci pensano i milionari

A fine gennaio, Jeff Green, magnate americano dell’immobiliare, ha preso moglie, figli e due babysitter ed è volato a Davos, in Svizzera, sul proprio jet privato. In questa elegante cittadina di montagna, dove ogni anno l’élite economica mondiale conviene per discutere dei problemi più pressanti del giorno al World Economic Forum, Green, che ha fatto i soldi scommettendo sul crollo dei mutui ‘subprime’, ha sorpreso molti dichiarando a Bloomberg in un’intervista: “La mia preoccupazione più grande per il nostro Paese è che la globalizzazione e la crescita esponenziale delle nuove tecnologie, che hanno già distrutto milioni di posti di lavoro, ne distruggeranno altri milioni e milioni negli anni a venire.” Anche grazie a un rapporto pubblicato in quei giorni dall’organizzazione non-governativa Oxfam – secondo il quale già nel 2016 l’1% più ricco della popolazione mondiale deterrà più ricchezza dell’altro 99% – il problema della disuguaglianza è stato così tra quelli più discussi durante il meeting.
Tali scene di multimiliardari, che, seduti attorno al caminetto con in mano un bicchiere di whiskey, parlano con simpatia delle vite dei meno abbienti, appaiono a dir poco incongruenti. Eppure il professato interesse dei più ricchi per questo tema è persistito anche dopo Davos. Basti guardare ai risultati di un’indagine sulla competitività dell’economia americana condotta tra più di 2.000 diplomati dalla Harvard Business School e pubblicata a inizio settembre. In essa, questi ex-studenti e oggi potenti imprenditori e amministratori delegati dichiarano che a beneficiare della ripresa economica del Paese sono stati fin qui quasi esclusivamente le persone come loro, che non ne hanno per nulla bisogno. Una tendenza questa che essi pensano sia destinata a continuare. Non solo, ben due terzi degli intervistati dicono che la priorità massima per gli Stati Uniti oggi dovrebbe essere la lotta contro la disuguaglianza, contro la stagnazione dei redditi della classe media, contro la povertà, contro la limitata mobilità economica, e a favore di una maggiore redistribuzione della ricchezza. Solo un terzo sostiene che bisognerebbe concentrarsi piuttosto sull’accelerazione della crescita economica, che è invece tradizionalmente la parola chiave dell’aristocrazia americana del business.
Nel frattempo una serie di grandi aziende hanno cominciato negli ultimi mesi ad aumentare, volontariamente, il salario orario minimo dei propri dipendenti. Lo hanno fatto, tra le altre, anche Target, Gap, Walmart e Ikea, con il risultato che oggi i loro impiegati peggio pagati guadagnano tra i 9 e i 13 dollari all’ora (la minimum wage federale è tutt’ora bloccata ai 7 dollari e 25 cent). A fine agosto, poi, Donald Trump, multimiliardario egli stesso e improbabile capo classifica nei sondaggi per le primarie del Partito Repubblicano, ha proposto di alzare le tasse sui redditi dei ricchi e di diminuire quelle sulla classe media (per il momento il rivale Jeb Bush si sta attenendo invece all’ortodossia conservatrice di una fiscalità rigorosamente regressiva).
Viene da chiedersi, insomma, cosa stia motivando questa improvvisa generosità da parte degli americani più facoltosi? Senz’altro, la pressione dell’opinione pubblica si fa sentire, innescata inizialmente dalla crisi finanziaria, nutrita da movimenti come Occupy Wall Street e Fight for 15 (che si batte per garantire anche ai lavoratori dell’industria del fast food un salario orario minimo di 15 dollari l’ora), e tenuta in vita oggi da figure politiche quali Bernie Sanders, socialista senatore del Vermont e candidato nelle primarie democratiche, e dalla senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren.
Come emerge dal rilevamento statistico di Harvard, però, pesa sui capitani di industria anche una seconda apprensione più immediata e più direttamente interessata. Il 71% di essi dichiara infatti che fenomeni come il gap crescente che separa i ricchi da tutti gli altri, gli stipendi della classe media che non crescono ormai da decenni, e il numero sempre più alto di americani che vive sotto la soglia di povertà, non sono solo un problema sociale, ma anche un problema finanziario per le loro aziende. “La disuguaglianza – spiega il rapporto, riassumendo le opinioni degli intervistati – riduce la domanda per i prodotti delle aziende che vendono ai lavoratori e alla classe media; provoca reazioni negative nei confronti delle imprese di successo; mina la stabilità sociale; e rende difficile agli individui investire in quella formazione di cui hanno bisogno i datori di lavoro”. A questo si aggiunge l’accresciuta necessità di programmi di assistenza pubblica a fronte di un tasso di povertà in aumento, con la conseguenza di tasse più alte anche sulle aziende. Tutti esiti che non fanno certo piacere al mondo del business.
Per dire la verità, alla conclusione che pagare di più i lavoratori fa solo bene alle casse aziendali ci era già arrivato Henry Ford a inizio Novecento. Poi questa nozione si è gradualmente persa per strada e sta facendo di nuovo capolino solo oggi, oltre un secolo più tardi. L’economia americana in ripresa (anche se non quella mondiale) e il tasso di disoccupazione nazionale sceso su livelli che non si vedevano da anni (al 5,1%) potrebbero dare una spinta ulteriore al relativo potere contrattuale dei lavoratori. Meno ce ne sono a disposizione, più le aziende devono irrobustire le proprie offerte salariali e di benefit per attirare quelli qualificati.
E così il magnate Jeff Green ha deciso di intensificare la propria inverosimile crociata, portando il dibattito sulla disuguaglianza fin nel giardino di casa propria. A dicembre la sua fondazione non-profit ospiterà a Palm Beach, una esclusiva enclave sulla costa atlantica della Florida dove Green vive affiancato da tanti dei suoi compari miliardari, una conferenza di tre giorni intitolata “Closing the gap”, per discutere, al modico prezzo di non meno di 2.000 dollari a persona, di come creare un’economia americana più equa. Contraddizioni a parte.
Valentina Pasquali