UNIVERSITÀ E SCUOLA

Fuori dal carcere. “Lavoro e faccio quello che mi riesce meglio: studiare”

Sono passati ormai sette anni dalla mia laurea. Era l’autunno del 2007 quando i membri della commissione, con le loro toghe piegate nelle borse, sono entrati in carcere per il mio esame finale. Era la prima laurea conferita nel carcere di Padova. Una grande conquista. Soprattutto perché ero stato il primo straniero a chiedere l’iscrizione all'università. L’immatricolazione degli stranieri di solito avviene attraverso procedure speciali, accordi tra Stati, protocolli ministeriali, e la mia condizione di detenuto complicava le cose. Il pericolo che mi venisse negato il diritto allo studio aveva mobilitato docenti e volontari. Alla fine, il Senato accademico accettò la mia domanda, e sono tornato a fare quello che facevo prima dell’arresto: studiare.

È risaputo che il carcere assoggetta a processi di istituzionalizzazione tutti quelli che vi abitano o lavorano. La galera costringe noi detenuti a seguire altre regole, altri codici. Una dimensione monocromatica, fatta di una quotidianità violenta nello spazio, nel linguaggio, nei simboli, nelle relazioni e, inevitabilmente, nella coscienza.

Ecco, la possibilità di studiare mi regalava una specie di scappatoia: un motivo, o ancora meglio una giustificazione per smarcarmi da tutto. Per i detenuti, per gli agenti, per la direzione, ero diventato “quello che sta facendo l’università”. Insomma, lo status di studente poteva giustificare la mia sottrazione alla logica della galera: ero in carcere, ma diverso dal carcere.

Alla fine, dopo aver scontato interamente la pena, sono tornato nella società “libera”. Per una felice combinazione di eventi, ho potuto avere un lavoro. Ma la mia indipendenza economica doveva fare  i conti ancora con la galera, che continuava a determinare la mia vita e il vuoto che mi circondava. Quindici anni via dal mondo, e poi catapultato di nuovo tra strade ruvide e facce sconosciute. Tolta la corazza così utile durante la convivenza forzata del carcere, è stato difficile per me indossare l’abito del cittadino “regolare” e infilarmi tra le righe composte di una città indifferente. L’esigenza di assumere un po’ di autonomia poteva essere colmata solo da quello che sapevo fare meglio: studiare.

Così sono tornato all’università e ho partecipato ad un concorso di dottorato. Competere con studenti giovani e agguerriti è stato difficile. Alla fine sono risultato idoneo. Niente borsa di studio, ma in fondo cercavo solo la possibilità di continuare a studiare, e un dottorato di ricerca era il massimo che potevo desiderare. Ora, tra le strade di una città sconosciuta, lavoro e studio, cercando di dimenticare quindici anni di vita, buttati via.

Libero

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