SCIENZA E RICERCA

Dal gioco al rischio: l'abc della competizione

Maschi più competitivi? Sicuramente secondo Ashley Merryman e Po Bronson, autori del recente volume Top dog: the science of winning and losing, gli uomini rischiano più delle donne e questo sembra fare la differenza. Ma non solo. Fin da bambini il linguaggio, il modo di interagire con gli altri, il gioco sembrano indicare una tendenza.

Nelle relazioni interpersonali, ad esempio, molte ricerche dimostrano che le bambine preferiscono le interazioni a due, mentre i maschi optano per il gruppo e questo genera dinamiche che favoriscono atteggiamenti più o meno competitivi. Nel gruppo, spiega in uno dei suoi studi sull’argomento Joyce Benenson, esiste maggior disaccordo, più antagonismo. La competizione e le negoziazioni sono perciò più frequenti. “I gruppi – sostengono anche Merryman e Bronson nel libro – sono raramente un insieme di pari. Ci si aspetta, al loro interno, persone con esperienze, capacità e risorse differenti”. E questo se da un lato costituisce un punto di forza, dall’altro lascia spazio all’emergere delle capacità del singolo e all’instaurarsi di rapporti gerarchici.

Il gruppo, specie se numeroso, permette l’espressione di forti emozioni, attraverso il linguaggio e talvolta anche l’aggressività nei modi, grazie al grado di “anonimato” e alla lealtà nei confronti del gruppo più che del singolo individuo. Cosa che evidentemente non è possibile nel rapporto a due, in cui ognuno ha rispetto degli obiettivi e delle emozioni dell’altro, mantenendo una parvenza di parità tra le due persone anche se, secondo Robert Bales e Edgar Borgatta, con una maggiore tensione. Il conflitto aperto porterebbe infatti al deterioramento e alla rottura del rapporto, in quanto non esiste la mediazione di terze persone. Di qui la necessità (e la pressione) soprattutto per la persona “dominante” di evitare atteggiamenti di superiorità. Ciò spiegherebbe il maggior consenso verbale e la frequenza del sorriso che si manifestano tra due piuttosto che in un gruppo. Ma, se è vero che il gruppo favorisce atteggiamenti competitivi, vale anche il contrario e cioè che i bambini più competitivi scelgono di interagire in gruppo, mentre chi non ama la competizione sceglie il rapporto a due.

Gli studi sul linguaggio, continua Benenson, dimostrano poi che i bambini usano un numero maggiore di parole che indicano comando, vanto, minaccia e generalmente si comportano in  modo più egoistico e apertamente aggressivo. Le femmine, al contrario, sembrano ricorrere a un linguaggio meno diretto ed essere più sensibili nei confronti degli altri. Al punto che le relazioni tra i bambini risultano essere più gerarchizzate, più paritari invece i rapporti tra le bambine.

Anche le ricerche sul gioco sembrerebbero confermare la tendenza dei bambini ad avere un comportamento più competitivo. Le bambine si dimostrano meno interessate rispetto ai maschi ai giochi che prevedono un vincitore e un vinto e, in questi casi, mentre le femmine enfatizzano i risultati i maschi si vantano della vittoria e prendono in giro chi perde.

Se già da bambini, dunque, emerge la tendenza dei maschi alla competizione, da adulti le differenze si manifestano anche in altri ambiti. Competere, sottolinea Po Bronson in un’intervista di Michael Martin su NPR, significa correre rischi, tentare soluzioni. Il rischio è un nodo cruciale della competizione. Se ci si focalizza sui problemi, si tenderà a non correre rischi. Concentrandosi invece sull’obiettivo da raggiungere, si scavalcano i limiti e si combatte duramente. Per una donna, continua Ashley Merryman, la decisione di competere o meno si basa essenzialmente sulla probabilità di vincere e sulla valutazione dei possibili rischi e problemi. L’analisi precede la decisione e, nella decisione, tende a sottovalutare le proprie capacità. Un uomo, invece, tende a ignorare gli ostacoli e ad essere molto sicuro di sé. Che alla fine, secondo gli autori, sembra dimostrarsi una strategia utile.

Monica Panetto

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