UNIVERSITÀ E SCUOLA

La formazione dei giovani, in Usa e in Italia

I giovani lavoratori negli Stati Uniti d’America sono più qualificati dei loro fratelli maggiori e dei loro padri. Hanno studiato di più. Fanno lavori meno pesanti. Guadagnano di più. Questa è una progressione (ma anche un progresso) generale che caratterizza la cosiddetta “era della conoscenza” e che è stato messo in evidenza dal Literacy, Numeracy, and Problem Solving in Technology-Rich Environments Among U.S. Adults: Results from the Program for the International Assessment of Adult Competencies 2012, un recente rapporto commissionato agli esperti della Harvard Business School dall’U.S. Department of Education, assimilabile al nostro ministero dell’istruzione.

Il rapporto è una sorta di grande analisi comparata sulla capacità di leggere e di scrivere, di far di conto e di risolvere i problemi tra varie fasce di età in vari paesi, compresa l’Italia. Ed è bene scorrerlo. Perché ci mostra due fenomeni molto interessanti. Su cui occorre riflettere.

1. I giovani lavoratori negli Usa come nel resto del mondo sono sempre più qualificati. Un dato che, paradossalmente, preoccupa non pochi analisti americani. Non solo e non tanto perché, come ha rilevato tempo fa il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, l’”economia della conoscenza” e l’innovazione tecnologica tendono a ridurre i posti di lavoro invece che a crearli. Ma anche e soprattutto perché, come dimostra l’articolo postato su Vox da Danielle Kurtzleben lo scorso 15 giugno, negli altri paesi di antica industrializzazione (Europa, Giappone) ma anche a economia emergente (Corea del Sud) fanno di più e di meglio. Se, infatti, fino a qualche anno fa i lavoratori americani erano più qualificati della media internazionale, oggi i giovani lavoratori Usa lo sono molto meno. Sia in termini di literacy (ovvero di alfabetizzazione, o meglio, di cultura generale), sia in termini di numeracy (cultura matematica), sia, infine, in termini di problem solving (capacità di risolvere i problemi). E questo è considerato un guaio. Non perché, dicono gli esperti dell’U.S. Department of Education, sia un male che negli altri paesi si sviluppi un’economia della conoscenza. Ma perché gli Usa possono perdere competitività e creatività.

2. Il secondo fenomeno messo in luce dall’analisi comparata americana è, forse, meno attesa. Le performance cognitive e, in particolare, la cultura matematica è abbastanza indipendente dalle risorse investite in educazione. Gli Stati Uniti, per esempio, investono oltre 10.000 dollari per alunno ogni anno nelle scuole primarie e secondari, più della Norvegia o della Svizzera. Ma la cultura matematica dei loro studenti è nettamente inferiore a quella dei ragazzi svizzeri e norvegesi. Ma questa dissociazione tra investimenti e risultati non riguarda solo i paesi che spendono di più. Portogallo e Corea del sud, per esempio, hanno investimenti pro capite paragonabili (circa 6.000 dollari l’anno per studente), ma performance molto diverse: altissime in Corea, deludenti in Portogallo. È quanto succede anche all’Italia. La nostra spesa per studente nelle scuole primarie e secondarie è simile a quella di Giappone e Finlandia, ma addirittura superiore a quella della Corea. Ma i risultati   

degli studenti italiani sono, in media, i più scadenti in assoluto tra tutti paesi analizzati in termini di literacy e superiori solo alla Spagna in termini di numeracy

Difficile individuare la causa di questo disaccoppiamento tra investimenti nella scuola e risultati cognitivi. Probabilmente perché le cause sono molte. Riguardano la tradizione culturale dei singoli paesi come i metodi pedagogici. Da quello che sappiamo per quanto riguarda l’Italia è che le medie nascondono una realtà molto diversificata. I risultati di analisi per regione, per esempio, ci dicono che gli studenti nel Centro e nel Nord del nostro paese ottengono risultati migliori dei pari livello del Sud del paese. Una questione antropologica? No. Perché a leggere bene i dati si scopre che le differenze riguardano piuttosto il tipo di scuola. I ragazzi che frequentano i nostri licei – al Nord come al Sud – sono al livello dei più bravi in Europa. Mentre i ragazzi che frequentano altri tipi di scuola sono molto al di sotto della media europea e mondiale. È evidente, dunque, che la casa principale di questo gap è di tipo sociale. O, almeno, anche di tipo sociale.

In definitiva, il rapporto della Harvard Business School ci dice che, in fatto di educazione, ogni approccio deterministico è sbagliato. Che alla formazione, crescente, dei giovani concorrono una serie di fattori, di natura diversa. Dagli investimenti (che non sono tutto, ma neppure sono niente), alla coesione sociale, all’organizzazione e ai metodi di insegnamento. 

Mentre l’attenzione critica che ai risultati del rapporto stanno prestando gli economisti, i media e anche i politici americani confermano che nel paese che è ancora leader al mondo nell’economia della conoscenza e nella capacità d’innovazione, l’educazione dei giovani e la formazione dei lavoratori sono considerati fattori strategici.   

Pietro Greco

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