SOCIETÀ

Una Europa dei cittadini, o nessuna Europa

È una firma storica di Repubblica, Barbara Spinelli, ad inaugurare, al Teatro la Fenice di Venezia, la "tre giorni" del quotidiano dedicata, quest’anno, all’analisi della febbricitante Unione Europea con il titolo “Europa e euro: fuori o dentro?" Per affrontare il tema caldo e dolente dell’Unione in questa edizione di La Repubblica delle idee il capoluogo veneto è stato scelto per due ragioni principali, ha spiegato il direttore della testata, Ezio Mauro. Perché il Nordest è la parte d’Italia forse più legata all’Europa dal punto di vista economico e produttivo, e per ricordare a noi stessi italiani quanto splendore, ricchezza e cultura, incarnati dalla città sull’acqua, siamo stati capaci di creare nel passato. Cosa ne è, allora, del presente? E del futuro? 

Barbara Spinelli, figlia di quell’Altiero Spinelli che dell’Europa fu uno dei massimi teorici, affronta la platea con una lettura lucida e dolente del futuro dell’Unione che non risparmia le responsabilità mancate e le bugie vendute per dati di fatto, e si mostra per questo di grande coraggio. Quella che il teatro accoglie in un silenzio assoluto è una voce che punta alla sostanza delle cose e trova corpo nella razionalità del pensare e del conoscere, ancor prima che del “fare”,

Spinelli inizia esortando a riflettere secondo i criteri della “storia virtuale” di Niall Ferguson, ossia definendo le alternative e domandandoci “cosa sarebbe successo se” (per esempio, con una diversa gestione della crisi che ha investito il continente dal 2007 in poi), senza cedere alla vanità di una narrazione teleologica che confeziona verità già digerite. Porta dalla sua non dati economici o tecnici, ma l’intuizione di pensatori, di filosofi, di narratori. La storia non può che essere scritta ex post, ci ricorda, e non certo a priori; l’uomo senza qualità di Musil si innervosisce davanti alla perentorietà dell’indicativo, preferendogli le possibilità del congiuntivo e del condizionale. Quello a cui stiamo assistendo, dice, è l’assassinio del possibile: la malattia non è stata compresa (o forse solamente non è stata rivelata?) ma alla cura ordinata dobbiamo credere, senza domandarci se può esserci alternativa: si chiama stabilità, austerità, moralità persino. L’errore non è ammesso.

Che le civiltà possano morire, invece, loro stesse già lo sanno, come insegna Paul Valery (“noi civiltà orami lo sappiamo di essere mortali”) e pertanto, a differenza di chi somministra la cura, c’è chi invece la teme. La Spinelli non usa mai il vocabolo paura, di proposito: parla di rabbia, quella dei visionari, dei sognatori, degli idealisti, che i giornali chiamano prosaicamente euroscettici o populisti, e che invece, dice, sono gli unici latori di quell’opportunità che, nata dalla rabbia, si trasforma in bisogno e quindi diventa progetto. È alla forza della loro ribellione che bisogna guardare.

Ma dove sta lo scarto, lo spread, per usare una parola cara al tema? Nella violazione di un patto sociale, nella mala riuscita di un matrimonio fin dalla sua celebrazione, quello tra cittadini e Unione. Nella proposizione dogmatica, quasi un manifesto, di menzogne capaci di imprigionare le speranze.

La prima: che l’Europa sia un’unione democratica di popoli. Da subito infatti, spiega Barbara Spinelli, il progetto politico è stato asservito al progetto economico: Europa è stata dalla prima ora sinonimo di moneta unica, venendone fuori mutila, perché una democrazia non può crearsi dal potere di una moneta, ma deve nascere dal progetto di un Parlamento. E anche qualora il Parlamento abbia agito consapevole del suo ruolo, secondo la lettura della giornalista, un grave equivoco non è stato mai risolto: la Costituzione parla di sovranità dei cittadini, non degli stati nazionali, mentre al contrario il legame rappresentato-rappresentante in ambito europeo è pressoché inesistente e sempre mediato dalle logiche nazionali. Appare quindi fuori luogo l’attributo di democratica, per questa unione, e anche la declinazione che a unirsi siano i popoli, perché invero sono i governi; ma anche la definizione di unione stessa è fittizia: vige infatti la sovranità dei singoli stati nazionali, che richiede l’unanimità nelle decisioni ed ammette il diritto di veto. Occorrerebbero, invece, delle vere e proprie elezioni cosmopolite, asserisce la giornalista.

Altre due grandi “bugie d’Europa” sono, per la Spinelli quella dell’eccessiva burocratizzazione dei meccanismi politici di Bruxelles, che ne risulterebbero così ingabbiati da essere incapaci di realizzare alcunché, e lo slogan di tutte le decisioni impopolari: “è l’Europa che ce lo chiede”. Entrambi non rappresentano altro, sostiene, che un'invenzione degli stati per esercitare il proprio potere senza assunzione di responsabilità, e se proprio si vuole andare a vedere, specifica la giornalista, non è l’Europa che chiede, ma sempre la Germania. In ogni caso, neppure il supposto potere della Germania lascia spazio, nella sua analisi, a ipotesi di frantumazione: non si torna indietro. È un’illusione quella che lo stato tedesco (o la Francia, o l’Inghilterra, figuriamoci l’Italia) possa esercitare una reale leadership autonomamente, specie calcando scene mondiali. Il caso della Siria ha mostrato come persino l’unica, anche se mal ridotta, potenza occidentale rimasta, ossia gli USA, nulla possa più senza avvalli esterni.

Cosa resta da fare? Oltre a somministrare – senz’alternativa - la cura dell’austerità? Trovare il colpevole, come sempre. Colui, anzi coloro, che diffondono lo “spirito disgregatore” che rischia di “minacciare la costruzione europea in fase di completamento verso il migliore dei mondi possibili”, è l’ironia amara della Spinelli. Non importa che “gli indignati”, i ribelli disgregatori, fondino la loro rabbia su dati oggettivi dai contorni drammatici, in primis l’incremento – in Italia - del debito, nonostante la cura che richiede a tanti (ma non a tutti) sacrifici che portano a rasentare la povertà. La malattia è colpa del malato, dice il medico che così l’ha ridotto.

Cosa resta da fare, davvero? Ascoltare Hegel e Musil e avanzare delle alternative, quelle del condizionale “si potrebbe”, ricordando la nottola di Minerva che spicca il volo sul far della sera; o, ancora meglio, ricordare l’opera di quell’italiano del Trecento che mostrava l’esistenza di tre mondi, e non il contrapporsi ieratico di due. Tra Inferno e Paradiso, infatti, si può sempre cercare la strada mediana del Purgatorio, che molte volte è quella giusta quando il cammino è biforcato.

Valentina Berengo

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