SOCIETÀ

Europa: dall’impensabile all’impensabile

Fin dall’inizio della crisi finanziaria nel 2008, la società civile europea ha chiesto di mettere uno stop alle politiche di austerità, con l’obiettivo di promuovere politiche di uguaglianza, di inclusione sociale e di benessere. Queste domande sono state ignorate: la Commissione, la Banca Centrale Europea, l’Eurogruppo hanno perseguito politiche opposte. Le sofferenze imposte ai popoli, in particolare quello greco, sono sotto gli occhi di tutti. La conseguenza inevitabile è stata l’esplosione della xenofobia e il ritorno di un virulento nazionalismo, in particolare nei paesi dell’Est.

Storicamente ostile ai nazionalismi, la sinistra europea sembra di nuovo essere incapace di fronteggiarli: oggi come nel 1914. Un secolo fa, il partito tedesco più forte - i socialdemocratici - votò senza esitazione i crediti di guerra, fornendo alla cricca militarista al potere i mezzi per precipitare il mondo nelle due catastrofi successive delle guerre mondiali.

Fu come risposta a questa tragedia che Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni scrissero – nel momento più buio della storia europea - il manifesto di Ventotene, immaginando un continente pacificato, che mettesse al bando i conflitti fra gli stati, e in particolare tra Francia e Germania. Contro ogni previsione, quel progetto ebbe successo e tra qualche giorno si festeggia la firma del Trattato di Roma, l’atto con cui ciò che nel 1941 era impensabile divenne realtà appena 16 anni dopo, nel marzo 1957.

Purtroppo, a 60 anni di distanza e dopo un premio Nobel per la Pace, l’Unione Europea mostra tutti i segni della vecchiaia, come se lo sforzo immane di mettere insieme 28 paesi avesse precocemente esaurito le sue energie vitali, lasciandola oggi incapace di decidere su questioni decisive come l’immigrazione, la politica fiscale, l’austerità. Tre settimane fa, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha presentato al parlamento un Libro bianco sul futuro della UE, il contributo della Commissione in vista delle celebrazioni del 25 marzo, quando a Roma ci dovrebbe essere una solenne Dichiarazione sul futuro dell’Unione.

Il documento delinea vari scenari possibili, tra cui una maggiore integrazione tra gli stati che si sentono pronti a farlo ma nella sostanza è una lista incolore di alternative, priva di coraggio e visione. Né potrebbe essere diversamente: le tensioni fra gli stati, la disaffezione popolare e le minacce dal mondo esterno (come il terrorismo mediorientale che abbiamo visto all’opera a Londra mercoledì) rendono infatti impossibile un intervento all’altezza della situazione. Si continuerà, dunque, business as usual, anche perché lo scopo di trasformare la UE in una macchina da guerra del neoliberismo, spossessando gli stati dei poteri democratici che avevano fino alla fine degli anni Settanta, è stato raggiunto da tempo.

I trattati di Maastricht, Nizza e Lisbona sono la camicia di forza imposta ai popoli dal neoliberismo europeo e non occorre neppure guardare alle sorti della Grecia: è sufficiente assistere allo spettacolo dei ministri italiani che cercano invano di contrattare con Bruxelles la cosiddetta “flessibilità” per rendersi conto di quanto siano impotenti le istituzioni nazionali. Questo progetto di modernizzazione forzata attraverso la creazione di ciò che Guido Carli pudicamente chiamava il “vincolo esterno” non aveva nulla di casuale: esso “impone un mutamento profondo nella costituzione materiale del Paese, l’abbattimento dell’economia mista, l’alienazione del patrimonio mobiliare pubblico”, come scriveva lo stesso Carli nel suo libro Cinquant’anni di vita italiana.

E l’ex governatore della Banca d’Italia insisteva proprio su questo punto: Maastricht era “un cambiamento di natura costituzionale”. Un cambiamento, visto che trasformava i governi democraticamente eletti in amministratori di condominio, che forse avrebbe dovuto essere maggiormente discusso e ponderato. Magari votato in un referendum come quelli che si tennero in Danimarca (che inizialmente votò No) e in Francia, dove solo una sfrenata propaganda dell’establishment riuscì a strappare un misero 50,8% di Si. Qualche anno dopo, al referendum sul progetto di Costituzione Europea, Francia e Olanda votarono No.

Le costituzioni devono durare, quindi sono difficili da modificare, per ottime ragioni: nel caso dei trattati europei quella italiana è stata puramente e semplicemente messa da parte con ratifiche parlamentari del tutto inadeguate - politicamente e giuridicamente - all’entità della posta in gioco. Se ciò è avvenuto è in primo luogo responsabilità della sinistra: sono stati i suoi presidenti del consiglio, in particolare Prodi e Ciampi, a condurre dei partiti disorientati e privi di leadership dopo la morte di Berlinguer (1984) verso l’accettazione incondizionata di un’Europa che non aveva nulla a che fare con gli ideali di Altiero Spinelli.

Oggi un grande patrimonio comune, fatto di conquiste e avanzamenti sul terreno dei diritti e della democrazia, si sta disperdendo insieme allo stato sociale, a speranze e ad aspettative. Negli ultimi anni, con trattati ingiusti, austerità, dominio della finanza, respingimenti dei profughi, precarizzazione del lavoro, discriminazione di donne e giovani, anche in Europa sono cresciute a dismisura diseguaglianza e povertà.

Oggi, di fronte al rigetto popolare di queste politiche crudeli e miopi, è più che mai urgente trovare un’alternativa. Un’Europa governata da Marine Le Pen o Geert Wilders sarebbe xenofoba e protezionista, alleata di personaggi di estrema destra come l’ungherese Viktor Orban o il polacco Jaroslaw Kaczyński. Ma non saranno le Grosse Koalitionen a salvare i partiti dell’establishment di fronte alla confusa, maldestra e pericolosa ribellione nazionalista in corso. Il voto olandese di qualche giorno fa non è affatto il segno di un limite, di una soglia che le destre nazionaliste non sarebbero in grado di valicare come molti pensano: la sofferenza sociale e il disprezzo per la classe politica in Francia sono andati ben oltre e le presidenziali che si terranno tra qualche settimana sono aperte a qualsiasi risultato.

Movimenti e partiti che dichiarano di essere contro l’austerità e il neoliberismo resteranno semplicemente irrilevanti se non offrono reali alternative e tra queste alternative non può più essere esclusa l’uscita dall’Unione, per quanto impensabile essa possa essere stata fino a pochi mesi fa.

L’Italia non è la Grecia, ha un’economia paragonabile a quella inglese, potrebbe sopravvivere anche in un mondo senza la UE: certo, non sarebbe un pranzo di gala ma potrebbe diventare l’unica strada per tornare a decidere democraticamente dei propri destini.

Fabrizio Tonello

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