SCIENZA E RICERCA
Ambienti marini produttivi, un nuovo punto di vista: il ruolo determinante dell’iperossia
Barene della laguna veneta
Di ipossia degli oceani ci siamo recentemente occupati, analizzando punti di forza e debolezze della mappatura della perdita di ossigeno sulle barriere coralline di tutto il mondo, guidati dalla competenza di Marco Fusi, Marine Ecosystem Scientist al JNCC (Joint Nature Conservation Committee) e ricercatore associato alla Napier Edinburgh University. Evidenziati i meriti del paper pubblicato su Nature, "che riflette sulle condizioni che determinano una ipossia che può nuocere e punta l'attenzione su una variabile poco studiata dell'oceano, soprattutto delle zone costiere dove si concentra la maggior parte di biodiversità marina e organismi fotosintetici che determinano le fluttuazioni di ossigeno", non sono mancate alcune riflessioni sui limiti, perché quello studio riporta “dati da esperimenti con misurazioni fatte su tre giorni di esposizione all'ipossia, che non è una fluttuazione rilevante [...] Il paper ci parla di bassi livelli di ossigeno, in generale, ma non tiene in considerazione la fluttuazione dell'ossigeno nelle 24 ore".
Proprio da qui ripartiamo per approfondire, ora, un nuovo e determinante studio in controtendenza rispetto a quanto analizzato finora. Tra gli autori della perspective Oxygen dynamics in marine productive ecosystems at ecologically relevant scales, pubblicata il 3 luglio scorso su Nature Geoscience e frutto di un lavoro decennale, vi è lo stesso Marco Fusi, coordinatore con Folco Giomi, ricercatore indipendente, e Alberto Barausse, docente del dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. Lo sviluppo, i risultati, le conclusioni di questo lavoro offrono inediti punti di vista, mettendo al centro alcune parole chiave: fluttuazioni, iperossia e vita.
"Inizio ricordando l’origine di questa linea di ricerca - racconta Fusi -. Era il 2011, io e Folco Giomi eravamo in Kenya impegnati nella seconda campagna di campionamento per studiare gli effetti del climate change su alcune specie di crostacei delle mangrovie. Ci stavamo concentrando sullo studio dell'effetto della temperatura su questi crostacei semi-terrestri, anfibi, che stanno in mangrovia, un po' in acqua e un po' all'aria. La nostra variabile di interesse era esclusivamente la temperatura ma, il più delle volte, il bello di queste missioni non è tanto legato all'esperimento pianificato ma all'opportunità di essere in un posto interessante sentendoti libero di nutrire la tua curiosità, senza porti limiti nell'osservazione di un fenomeno naturale. Io e Folco ci svegliavamo alle cinque di mattina per andare a fare snorkeling nel mezzo della mangrovia inondata dall'alta marea: era bellissimo perché eravamo abituati a starci durante la bassa marea, in uno strato melmoso, invece durante l'alta marea potevamo osservare gli animali prettamente acquatici uscire fuori e magari arrampicarsi sul tronco di una mangrovia per aspettare il passaggio di un pesce o di un altro crostaceo. Trascorrevamo così il nostro tempo libero. Finché, un giorno, Folco propose di caratterizzare l'ambiente a bassa marea dove stavano questi animali acquatici: con il sensore dell'ossigeno andai a fare le misurazioni sulle pozze di marea. In pieno giorno, con il sole a picco, l'acqua si scaldava tantissimo ma c'erano moltissimi animali: granchi, pesci, gasteropodi. Immerso il sensore nell'acqua, si registrava una temperatura altissima ma anche una enorme disponibilità d'ossigeno. Proprio in quel momento è arrivata l'illuminazione: ci siamo detti, probabilmente gli animali marini continuano a vivere tollerando queste temperature perché hanno grandissime disponibilità di ossigeno che permettono loro di alimentare il metabolismo e sopportare appunto i picchi di calore. Da qui, il primo paper del 2019 nel quale abbiamo verificato e confermato la nostra teoria iniziale, ovvero che l'iperossia è un fattore chiave per la resistenza termica di questi animali, ma abbiamo anche fatto un passo in più: era giunto il tempo di spostare l'attenzione dalle medie globali delle aree marine alla precisione su piccola scala, perché è lì che l'ossigeno cambia ed è lì che le fluttuazioni si rivelano importanti".
Attualmente le previsioni degli effetti del cambiamento climatico sulla biodiversità e la qualità dell’acqua degli oceani si basano su valori di ossigeno disciolto medi nello spazio – su scale di decine di chilometri – e nel tempo – su scale mensili-annuali – ma trascurano un "dettaglio" estremamente importante, capace in qualche modo di ribaltare il punto di vista: per capire l’effetto del cambiamento climatico sui mari, è fondamentale considerare anche le forti fluttuazioni di ossigeno disciolto fra giorno e notte negli habitat marini altamente produttivi, dove l’acqua passa regolarmente da condizioni di sovrabbondanza di ossigeno a condizioni di scarsità. Tali fluttuazioni avvengono anche su scale microclimatiche: in prossimità di organismi fotosintetizzatori molto attivi, come piante acquatiche, macroalghe o biofilm algali vi possono essere differenze enormi di ossigeno disciolto soltanto spostandosi di pochi centimetri. Queste fluttuazioni di ossigeno sono importanti per gli ecosistemi perché alterano nettamente la tolleranza degli organismi marini allo stress termico e all’ipossia e hanno un impatto significativo sui cicli biogeochimici di carbonio, azoto e fosforo.
La ricerca sottolinea la frequente presenza dell’iperossia in questi habitat produttivi, durante il giorno: l’ossigeno disciolto in acqua può così raggiungere livelli anche molto al di sopra del livello di saturazione in equilibrio con l’aria. La verità è che "l’iperossia non è stata presa in considerazione dalla letteratura scientifica: è stata sempre trascurata rispetto all’ipossia - spiega Folco Giomi -. Questo fino ad oggi: stiamo scoprendo, infatti, che il suo impatto sulle comunità marine e sui cicli biogeochimici è rilevante. Associata a una maggiore resistenza al calore in molti organismi marini, l'iperossia può influenzarne positivamente le prestazioni metaboliche. C'è dunque un altro modo di leggere l'ambiente marino, in tutte le fasce costiere produttive dove avviene la ‘magia’ della fluttuazione; c'è un'altra via di interpretazione della variabilità climatica, ed è proprio in questa variabilità che si è evoluta la vita".
"Questo nostro nuovo lavoro è una perspective, un punto di vista - precisa Giomi -. L'abbiamo scritto per fornire supporto alle nostre ricerche precedenti, dopo il primo articolo del 2019 e i due successivi in cui avevamo dimostrato la generalità del fenomeno fisiologico della risposta degli organismi alle fluttuazioni dell'ossigeno, ragionando su come questo possa conferire determinati vantaggi da un punto di vista ecologico. Dopo aver lavorato moltissimo per pubblicare queste ricerche ci siamo resi conto di essere andati troppo avanti, producendo già risultati a livello di organismi e comunità senza avere una background solido della caratterizzazione ambientale, dandola per scontata: era talmente ricorrente da portarci a credere che fosse impossibile non conoscerne la natura. Ma gli unici articoli sulla presenza della supersaturazione dell'ossigeno o sulle sue variazioni cicliche in ambienti intertidali risalivano al 1967, in Scozia. Ci siamo resi conto, dunque, della necessità di pubblicare una perspective sulla reale occorrenza della disponibilità di ossigeno nell'ambiente".
"La parola chiave è vita". Per Alberto Barausse questa perspective può stimolare molte riflessioni: "Nel 2015, in laguna di Venezia, abbiamo fatto un campionamento per analizzare la capacità di fitodepurare dei piccoli canali che attraversano le barene, i cosiddetti ghebi: si era notato moltissimo ossigeno nei campionamenti fatti in primavera-estate, ossigeno prodotto dentro le barene, in ambienti estremamente produttivi. La quantità di ossigeno presente in quell'acqua superava enormemente quella misurata, in acque profonde anche solo un metro, dalle sonde del sistema di monitoraggio della qualità delle acque in laguna. Questo aspetto mi aveva colpito. La maggior parte delle sonde che vengono utilizzate da chi fa monitoraggi in campo non sono calibrate per concentrazioni di ossigeno così alte". La visione organica della perspective consente di superare questo ostacolo e "nuove sonde, ora, permettono di misurare, a diverse latitudini, queste enormi oscillazioni di ossigeno negli ambienti costieri produttivi, anche di acqua dolce".
"Il messaggio di questo lavoro è conservazionistico - continua Barausse - perché tutti gli ambienti costieri produttivi, con queste forti oscillazioni di ossigeno, sono minacciati dalle attività umane: parlo delle barene, delle praterie di fanerogame acquatiche e delle barriere coralline. Proteggere questi ambienti significa salvare una riserva di resilienza contro il cambiamento climatico".
Il "messaggio positivo" della perspective, in controtendenza se inserito nello scenario allarmante legato ai cambiamenti climatici, viene ribadito da Giomi, a cui è affidata la conclusione di una conversazione a più voci: "Un lavoro in cui si dice che la specie ce la può fare è molto più difficile da pubblicare. Il nostro studio prova a trasmettere un messaggio positivo, l'allarmismo a volte non è giustificato e spesso si poggia su basi scientifiche non particolarmente solide. Invece di essere catastrofisti, dovremmo provare a essere attinenti all'ecosistema ma conoscendolo bene. In realtà, dunque, le comunità, in questo caso marine, sono molto più resilienti e tolleranti di quello che si pensa: se tutti gli allarmismi lanciati negli anni si fossero rivelati veri, oggi il mare sarebbe spopolato. In laguna di Venezia, a quaranta gradi, nelle pozze di scogliera, c’è vita: se le comunità ce la fanno in quelle condizioni, non sarà il global warming a distruggerle, perché ci sono meccanismi che hanno permesso alla vita di evolversi in ambienti fluttuanti ed estremi".
Oxygen dynamics in marine productive ecosystems at ecologically relevant scales – Nature Geoscience – 2023 Autori: Folco Giomi, Alberto Barausse, Alexandra Steckbauer, Daniele Daffonchio, Carlos M. Duarte & Marco Fusi