Il 15 dicembre scorso si è conclusa a Madrid la 25a sessione della Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, Unfccc). Approvata nel 1992 al termine dell’Earth Summit di Rio de Janeiro ed entrata in vigore il 21 marzo 1994, l’Unfccc ha come principale obiettivo la stabilizzazione delle concentrazioni di gas a effetto serra nell'atmosfera a un livello tale da prevenire pericolose interferenze con il sistema climatico, in un arco di tempo che consenta agli ecosistemi di adattarsi naturalmente e consentire uno sviluppo sostenibile. Gli impegni delle nazioni per raggiungere quest’obiettivo devono essere ripartiti equamente e sulla base delle responsabilità storiche di emissione di gas-serra e delle specifiche capacità.
L’Unfccc conta sulla partecipazione di 197 nazioni (Parti nel gergo Unfccc), che annualmente si ritrovano nella COP nel tentativo di creare una risposta globale all'emergenza climatica. Alla COP partecipano, come osservatori, anche i rappresentanti di organizzazioni non governative, tra cui quelle del settore privato, della comunità scientifica e dei giovani.
Da Rio a Madrid
Per rafforzare l’efficacia dell'UNFCCC, nel dicembre 1997 fu adottato il protocollo di Kyoto, un accordo che impegna in maniera vincolante i Paesi industrializzati e i Paesi in transizione verso un'economia di mercato (37 Paesi complessivamente, tra cui l’Italia) a conseguire obiettivi quantificati di riduzione delle emissioni per un gruppo di sei gas a effetto serra (anidride carbonica, metano, ossido di azoto e tre gas di origine industriale). Questi Paesi erano chiamati a ridurre le emissioni di gas-serra, all'interno del quinquennio 2008-2012, in media del 5,2 percento rispetto ai livelli del 1990. Il protocollo di Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005 e conta 192 Parti. Nel 2012, fu approvato il Doha Emendment, con il quale le Parti si sono impegnate a ridurre le emissioni di gas a effetto serra d’almeno il 18% al di sotto dei livelli del 1990 nell'arco del periodo 2013-2020. Va ricordato che la composizione delle Parti nel secondo periodo di impegno è diversa dalla prima.
Ai sensi del Protocollo, i Paesi devono raggiungere i propri obiettivi principalmente attraverso misure nazionali. Tuttavia, il Protocollo offre loro anche un mezzo aggiuntivo per raggiungere i loro obiettivi mediante tre meccanismi basati sul mercato (argomento di disaccordo nel corso della COP25), con gli obiettivi di:
- stimolare lo sviluppo sostenibile attraverso il trasferimento tecnologico e gli investimenti;
- aiutare i paesi con impegni di Kyoto a raggiungere i propri obiettivi riducendo le emissioni o eliminando il carbonio dall'atmosfera in altri paesi;
- incoraggiare il settore privato e i paesi in via di sviluppo a contribuire agli sforzi di riduzione delle emissioni.
Per entrare in vigore, il Doha Emendment richiedeva un quorum di 144 ratifiche delle Parti. Ad oggi solo 121 Parti lo hanno ratificato.
Nel mese di dicembre 2015, le Parti hanno adottato l'Accordo di Parigi, un trattato che segna una pietra miliare verso la decarbonizzazione delle società e delle economie e un mondo resiliente. Tra le altre cose l’Accordo d Parigi impegna collettivamente i governi a mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli dell’era preindustriale (che si concluse nella seconda metà del XVIII secolo con l’invenzione della macchina a vapore) e possibilmente di limitarlo a meno di 1,5 °C. Per raggiungere questo obiettivo i singoli governi erano chiamati ad esprimere i propri impegni nazionali di riduzione delle emissioni (nationally determined contributions, NDC) da raggiungere entro il 2025. Inoltre, avendo convenuto che gli impegni nel loro complesso non sarebbero stati sufficienti a raggiungere gli obiettivi dello stesso Paris Agreement, gli Stati avevano convenuto a Parigi che entro il 2020 i Paesi avrebbero dovuto "comunicare o aggiornare” i propri NDC per il quinquennio 2026-2030, in misura tale da “riflettere il massimo livello possibile di ambizione, considerando le responsabilità comuni seppur differenziate e le rispettive capacità, alla luce delle specifiche circostanze nazionali” (Articolo 4.3 dell’Accordo di Parigi).
“ Il protocollo di Parigi è stato adottato nel 2015 e impegna i governi a contenere l'aumento della temperatura media globale
Ad oggi l'accordo di Parigi è stato firmato da 195 Parti e ratificato (o in qualche modo sottoscritto) da 187 Parti che rappresentano il 97% delle emissioni globali. L'accordo è entrato in vigore quando 55 parti che rappresentavano almeno il 55% delle emissioni globali hanno aderito all'accordo. Questa soglia è stata raggiunta il 5 ottobre 2016 e l'accordo è entrato in vigore il 4 novembre 2016.
Secondo Climate Change Action gli impegni dichiarati a Parigi nel 2015 porterebbero comunque entro la fine del secolo a un global warming di circa 3 °C, il doppio rispetto alla soglia concordata a Parigi. Un evidente deficit di “ambizione climatica” che doveva essere colmato alla COP25 di Madrid.
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Le grida (inascoltate) della scienza
La COP25 - che inizialmente doveva tenersi a Santiago (Cile), ma spostata a Madrid all’ultimo momento dopo la rinuncia del governo cileno di ospitarla a causa delle rivolte e della crisi politica - era stata preceduta dalla pubblicazione di tre rapporti speciali dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), la massima autorità scientifica mondiale sui cambiamenti climatici: Global Warming 1.5 °C, Land e Oceans and Criosphere). I tre rapporti avevano lanciato dei caveat inequivocabili ai decisori politici e aveva acceso movimenti di giovani (e meno giovani) che in milioni sono scesi sulle strade per chiedere azioni concrete e immediate per affrontare l’emergenza climatica. Il primo dei tre rapporti aveva confermato che il pianeta si è già riscaldato di 1,1°C rispetto all’era pre-industriale e che si sta avviando pericolosamente a superare la soglia di un riscaldamento di 1,5 °C. La lista degli effetti indicati dall’IPCC include: eventi meteo estremi (ondate di calore, siccità prolungate, alluvioni, uragani, ecc.) sempre più catastrofici, frequenti ed estesi; scioglimento dei ghiacciai polari e alpini (e conseguenti impatti sulla disponibilità di acqua, sulle attività industriali e turistiche); distruzione e degradazione di habitat (in particolare di quelli più vulnerabili, come le barriere coralline e le aree umide); riduzione delle produzioni agricole; incendi più frequenti ed estesi; innalzamento del livello del mare; povertà e migrazioni; estinzione di molte specie animali e vegetali.
I dati pubblicati a fine 2019 del Global Carbon Project ci dicono che da Parigi in poi le emissioni annuali di gas serra legate all’uso delle fonti fossili e alla produzione di cemento sono cresciute invece di diminuire e nel 2019 hanno raggiunto un nuovo record storico di 36,8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), lo 0,6% in più rispetto al 2018. A questa cifra occorre poi aggiungere circa 6 miliardi di tonnellate di CO2 che derivano dalla distruzione e degradazione delle foreste e da altre forme di trasformazione d’uso e di gestione del suolo. Per effetto del rilascio in atmosfera di questa quantità di gas, nel 2019 la concentrazione di CO2 in atmosfera è cresciuta ancora, fino alla quota record di 410 ppm (parti per milione), il 48% in più rispetto ai livelli preindustriali.
Evoluzione delle emissioni di anidride carbonica equivalente (CO2eq) in atmosfera (1960-2018). Fonte: Global Carbon Project
Al ritmo attuale di emissioni di gas serra, la Terra raggiungerebbe e supererebbe la soglia di 1,5°C di riscaldamento tra il 2030 e il 2052. Un ulteriore riscaldamento porterebbe il pianeta verso scenari climatici - anche per gli stessi scienziati - ‘sconosciuti’. Più aumenta la temperatura più alti sono i rischi che s’inneschino effetti retroattivi (nel gergo: positive feedback) devastanti: scioglimento dei ghiacciai polari e conseguente riduzione della superficie del pianeta che riflette il calore solare fuori dall’atmosfera (albedo); scioglimento del permafrost e conseguente rilascio di enormi masse di metano, un gas molto riscaldante; la perdita di vitalità del vortice polare, che potrebbe contribuire a rendere inarrestabile il caos climatico; incendi forestali.
L’IPCC sostiene che per stabilizzare il clima ed evitare la catastrofe occorre dimezzare il livello attuale delle emissioni di gas-serra entro il 2030 e azzerarle entro il 2050. Entro il 2030 le emissioni di gas-serra devono scendere dagli attuali 45 a 25 miliardi di tonnellate di CO2, il che significa un taglio del 4% delle emissioni di gas-serra ogni anno tra il 2020 e il 2030, pari a 1,8 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno. (Per dare un’idea dell’impegno può essere utile ricordare che le emissioni italiane sono attualmente pari a circa 0,4 miliardi di tonnellate di CO2.) Un impegno non da poco, che può essere raggiunto solo con un grande balzo delle fonti rinnovabili nella offerta globale d’energia. Entro il 2050 una quota compresa tra il 70% e l’85% della domanda mondiale di energia elettrica dovrà essere prodotta da eolico, solare, biomasse e altre rinnovabili. Il resto lo dovranno fare gli oceani e le foreste e gli ecosistemi naturali, ai quali è richiesto di assorbire anidride carbonica (e che quindi bisogna prima di tutto proteggerli dalla distruzione e degradazione) e le nuove tecnologie d’ingegneria geologica (geo-engineering).
Gli obiettivi dichiarati di Madrid
I 27 mila delegati dei governi e osservatori erano giunti a Madrid con l’intento di giungere a un accordo per:
- innalzare l’ambizione per il clima (nel gergo, climate ambition);
- completare il regolamento per l’attuazione dell'Accordo di Parigi;
- sostenere ai Paesi in via di sviluppo per poter fronteggiare le perdite e i danni causate dall'impatto dei cambiamenti climatici.
Come la maggior parte dei COP precedenti, la COP25 è stata dominata da una condotta ‘letargica’ e dalla riaffermazione delle vecchie posizioni geo-politiche. Dal 1992 il mondo della COP è diviso da una frattura, di natura economica e geografica. Da un lato c'è il Sud globale, che non ha le risorse per affrontare gli effetti degli eventi estremi e dell’inesorabile aumento della temperatura provocati dall’effetto serra (e dove le garanzie di espressione del consenso sono ridotte); dall’altro si trovano i Paesi del Nord globale (di cui fanno parte anche Australia e Nuova Zelanda), che spesso, nonostante la narrativa e gli annunci roboanti di piani net-zero emissions, non fanno molto per seguire le indicazioni della scienza e le decisioni UNFCCC. E comunque, da entrambi i lati della linea di demarcazione, i leader dei governi sono spesso permeabili alle lobby e al business dei combustibili fossili.
I risultati della COP25
Sul primo punto indicato al paragrafo precedente, va ricordato che il motto della COP25 voluto dalla presidenza era Time for Action, ossia “Tempo d’Agire”, nella speranza che potesse servire per scaldare gli animi dei delegati. Tutti, alla vigilia della COP, si aspettavano un segnale forte rispetto alla necessità che tutti i Paesi, sviluppati, in via di sviluppo e meno sviluppati (least developed countries), potessero congiuntamente rafforzare i loro contributi.
All’apertura della conferenza, 68 Parti hanno annunciato l'intenzione di rafforzare i loro contributi. Di questi Paesi, la maggior parte era rappresentata da piccoli Stati insulari e Paesi meno sviluppati, che collettivamente rappresentano poco più dell'8% delle emissioni globali di gas-serra. Alla fine della conferenza di Madrid, il numero di Parti è salito a 80, responsabili complessivamente del 10% delle emissioni globali. Dei maggiori emettitori di gas-serra, nessuno ha chiaramente manifestato l'intenzione di aumentare le proprie ambizioni. Una risposta decisamente inadeguata e deludente rispetto ai caveat dei rapporti dell’IPCC e alle richieste di milioni di manifestanti, giovani e meno giovani. La stessa UE, che in una seduta Consiglio europeo del 13 dicembre aveva convenuto di diventare neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050, non ha spiegato cosa ciò possa significare per l'ambizione a breve termine, dal 2025 in poi.
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Altri segnali della conferenza indicano chiaramente che la frattura tra i due blocchi tende ad allargarsi. E che gli eventi climatici estremi, ogni anno più devastanti, estesi e numerosi, hanno l’effetto di amplificare la spaccatura. Le piccole nazioni insulari - che rischiano di affondare con l’innalzamento del livello degli oceani - hanno espresso la loro opposizione a Paesi come India, Brasile e Cina che hanno insistito sui meccanismi di commercio del carbonio per compensare le emissioni del nord globale. Tuvalu e un gruppo di stati insulari del Pacifico hanno minacciato di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite contro i Paesi sviluppati per "crimini contro l’umanità” se non saranno concessi i finanziamenti decisi a Parigi per ricompensare le perdite e i danni (losses and damages, nel gergo dell’Unfccc) subiti e che potrebbero subire in futuro. Già nel 2014 l’IPCC riportò che l’innalzamento di un metro del livello dell’oceano avrebbe cancellato il 15% delle isole del Pacifico.
A Madrid, il G-77 ha sottolineato che l’azione e implementazione pre-2020 per la definizione delle decisioni che riguardano l’orizzonte temporale precedente all’inizio del “periodo d’impegno” dell’Accordo di Parigi doveva essere la base dell'azione post-2020. Il blocco dei cosiddetti Like-Minded Developing Countries (Paesi in via di sviluppo affini, o LMDC), di cui fanno parte India, Cina, Venezuela, Iran e altri Paesi che rappresentano oltre il 50% della popolazione mondiale, hanno sollecitato maggiore attenzione agli sforzi per affrontare il cambiamento climatico ancora prima che entri in vigore l’Accordo di Parigi (post-2020) anche se i Paesi sono ancora nella fase di negoziazione delle regole per attuare l'accordo di Parigi. I LMDC hanno assunto una linea particolarmente dura, sottolineando che a loro avviso il "periodo pre-2020" non riguardava i tempi, ma l'ambizione e che il periodo pre-2020 sarebbe terminato solo quando gli impegni sarebbero stati rispettati. La COP23 aveva osservato che tutte le Parti condividono l'opinione secondo cui l'attuazione e l'ambizione pre-2020 sono della massima importanza e aveva sottolineato che una maggiore ambizione pre-2020 poteva costituire una solida base per una maggiore ambizione per il post-2020.
L'articolo 14 dell'accordo di Parigi richiede alla CMA (Conferenza delle parti che funge da meeting delle parti firmatarie dell'Accordo di Parigi) di fare periodicamente un bilancio dell'attuazione dell'accordo di Parigi e di valutare i progressi collettivi verso il raggiungimento dello scopo dell'accordo e i suoi obiettivi a lungo termine. Questo processo è chiamato global stock-take, una sorta di ‘tagliando’. Lo stock-take deve essere condotta in modo completo e facilitante, tenendo conto della mitigazione, dell'adattamento e dei mezzi di attuazione e supporto finanziario, anche alla luce dell'equità e della migliore scienza disponibile.
La CMA effettuerà il primo global stock-take nel 2023 e successivamente ogni cinque anni, salvo diversa decisione della CMA. La COP24 del 2019 ha accolto con favore lo stock-take sugli sforzi relativi alla mitigazione, all'adattamento e agli aiuti e sull'ambizione pre-2020 e ha ribadito la decisione presa alla COP23 di rifare il punto in occasione della COP-25 ed eventualmente di riconsiderare gli sforzi delle Parti per affrontare i cambiamenti climatici nel periodo pre-2020, nonché di fare una riflessione globale e collettiva sulle sfide e le opportunità per migliorare l'attuazione e l'ambizione nel post-2020.
L’evidenza del deficit di sforzi finora dimostrato dai paesi sviluppati non deve essere ridistribuita in tutte le parti. Pertanto, gli LMDC hanno richiesto che fosse intrapreso un programma di lavoro di 2 anni nell'ambito dell'organo sussidiario per l'attuazione per fare un bilancio dettagliato degli sforzi finora fatti e per discutere un modo per far sì che i paesi sviluppati possano assumersi le proprie responsabilità e aderire ai propri impegni.
Tuttavia, la maggior parte degli altri Paesi in via di sviluppo non ha sostenuto questa linea dura. Pur deplorando la mancanza di ambizione manifestata dai Paesi sviluppati, a loro avviso le ambizioni future di tutti i Paesi non dovrebbero essere subordinate al periodo pre-2020.
Il risultato finale della conferenza ha tentato di tenere insieme le ambizioni pre- e post-2020, come era stato richiesto dai LMDC. Nella decisione finale sia la COP sia la CMA (Parti dell'Accordo di Parigi) hanno ribadito “con grave preoccupazione l'urgente necessità di colmare il divario significativo tra l'effetto aggregato degli sforzi di mitigazione delle Parti in termini di emissioni annuali globali di gas a effetto serra entro il 2020 e i percorsi aggregati delle emissioni di gas-serra, coerenti con il mantenimento dell'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e il proseguimento degli sforzi per limitare l'aumento della temperatura a 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali”.
Un tema di grande attrito è stato l'articolo 6 dell’Accordo di Parigi, relativo al ruolo dei mercati e del commercio internazionale del carbonio come strumento per facilitare gli impegni dei paesi a rispettare gli impegni assunti ai sensi dell'accordo di Parigi. I mercati del carbonio consentono ai paesi di richiedere crediti di anidride carbonica assorbita dalla vegetazione e sequestrata nella stessa vegetazione e nei suoli, e per gli sforzi di riduzione delle emissioni attraverso la realizzazione di parchi eolici o progetti di energia rinnovabile.
Questi crediti possono essere venduti ai paesi sviluppati, che a loro volta possono contabilizzarli nei propri bilanci nazionali di gas-serra per i propri obiettivi di taglio delle emissioni di gas-serra. I mercati del carbonio sono stati introdotti nel protocollo di Kyoto del 1997 come meccanismo per orientare gli investimenti finanziari verso i paesi poveri che altrimenti avrebbero difficoltà a implementare tecnologie pulite o avrebbero dovuto affrontare una pressione economica per abbattere le loro foreste.
La pretesa del Brasile era che i crediti di carbonio derivanti dal sequestro di carbonio da parte delle sue foreste potessero essere conteggiate, in prima battuta, per compensare le emissioni di gas-serra di altri settori emissivi e contribuire a raggiungere gli obiettivi nazionali di taglio delle emissioni, e, in seconda battuta, potessero essere ceduti come crediti generati dalle politiche e progetti di conservazione delle foreste esistenti o di creazione di nuove ai Paesi industrializzati sul mercato globale. Molti Paesi, tra cui l’UE hanno evidentemente considerato che questo approccio avrebbe dato vita a un doppio conteggio e avrebbe rappresentato un vulnus all’integrità dell’Accordo di Parigi. Altri Paesi hanno anche cercato di far passare l’idea che i crediti di carbonio generati nei periodi di impegno del Protocollo di Kyoto potessero essere trasferiti al post-2020. Ciò, secondo molti Paesi, avrebbe consentito di sgravare i propri impegni di taglio ai gas-serra.
La decisione finale della COP25 ricorda anche di dare piena attuazione all'impegno di destinare 100 miliardi di dollari l’anno a favore dei paesi in via di sviluppo e sottolinea che gli stessi Paesi in via di sviluppo hanno impedimenti di accesso a quei fondi.
La COP25 ha inoltre deciso che la COP26 di Glasgow terrà una tavola rotonda sull’attuazione e ambizione pre-2020, a cui parteciperanno sia le Parti firmatarie dell’Accordo sia gli osservatori. Sulla questione della revisione degli NDC, la penultima versione del testo proposta dalla presidenza cilena il 14 dicembre aveva ribadito l'invito alle Parti a comunicare i loro NDC. Questa bozza aveva tuttavia finito per suscitare forti reazioni da parte di molte Parti che hanno chiesto di adottare un chiaro impegno ad aumentare l'ambizione. Alla fine, però, non è stato possibile includere un linguaggio così chiaro nella decisione.
La decisione finale della COP ricorda la richiesta di re-inviare gli NDC esistenti o di presentarne di nuovi o aggiornati e contiene una dichiarazione generica sulla necessità di aumentare le ambizioni. Inoltre, la decisione finale ricorda che il Segretariato è invitato a preparare un rapporto di sintesi sulle submission degli NDC da parte dei governi e chiede al Segretariato di renderlo disponibile alla COP26.
Infine, una decisione delle parti del Protocollo di Kyoto esorta fortemente le Parti che non hanno ancora ratificato l'emendamento di Doha di farlo il più presto possibile. L’emendamento di Doha, che contiene impegni vincolanti per i Paesi industrializzati per il periodo 2013-2020 del Protocollo di Kyoto, non è ancora entrato in vigore a causa di un numero insufficiente di ratifiche.
Considerazioni conclusive
Mentre negli anni precedenti i tempi supplementari delle COP erano stati necessari in quanto i Paesi ambiziosi erano pronti a concedere più di quello che i Paesi recalcitranti erano disposti a concedere, quest'anno gli extra-time sono stati necessari per respingere i tentativi di minare l'integrità dell'Accordo di Parigi nel suo complesso, in particolare dove viene chiesto ai governi di aumentare l’ambizione climatica e di garantire l'integrità del commercio internazionale dei crediti di carbonio, secondo quanto previsto dall’articolo 6 dell'Accordo di Parigi.
I risultati modesti e deludenti della COP25, sintetizzati nel paragrafo precedente, sono lo specchio dello stato attuale della politica climatica internazionale. La conferenza di Madrid non è stata in grado di completare il libro delle regole per l’attuazione dell’Accordo di Parigi e si è limitata a inviare un segnale debole sulla necessità di ulteriori interventi (climate ambition). Non è stata nemmeno in grado di concordare la roadmap del processo negoziale dell’anno in corso, decisivo per le sorti per affrontare l’emergenza climatica. Infatti per poter pianificare e distribuire le azioni prima della prossima COP che si terra a Glasgow nel novembre 2020, tutti gli NDC dovranno essere sul tavolo al massimo entro la fine di giugno.
La COP25 ha lasciato sui tavoli ancora molto lavoro da fare per mantenere gli obiettivo a lungo termine dell'Accordo di Parigi. Durante e al termine delle due settimane del summit, la conferenza ha ancora una volta messo in evidenza i limiti del processo decisionale consensuale—come quello vigente nell’ambito delle Nazioni Unite—che finisce spesso per affidare a un pugno di Paesi (USA, Brasile, Argentina, Australia, per citare i più climaticamente apatici) un potere smisurato, permettendo loro di tenere in ostaggio il resto del mondo e impedendo di far decollare proposte valide in nome della pratica del consenso.
Il tempo della 'politica cosmetica' sul clima è giunto al termine, davvero è giunto il momento di agire. Fortunatamente non si comincia dal nulla. I petro-Stati, i Paesi fortemente legati ai combustibili fossili lo sanno e cominciano a realizzare che il processo di decarbonizzazione delle economie scritto a Parigi è stato avviato. E per questo stanno cercando in tutti modi di organizzare una resistenza compatta. Diversamente, la maggior parte dei Paesi vuole portare la politica climatica a un nuovo livello di ambizione.
Bisogna riconoscere però che i Paesi che di fatto hanno bloccato i progressi alla COP25 sono semplicemente la punta dell’iceberg, i Paesi che escono allo scoperto. Al coperto agiscono altri Paesi, in cima alla lista dei principali emettitori, che pur avendo ratificato l'Accordo di Parigi e sostenendolo sul piano teorico e retorico, non sono ancora pronti a intraprendere seriamente un percorso coerente con gli obiettivi e accordato con i tempi dettati dall’accordo di Parigi e con le indicazioni della scienza. Persino Paesi come la Germania e il Regno Unito, un tempo considerati alla testa delle azioni climatiche, hanno approvato piani di lotta all’effetto serra che Climate Action Tracker ha classificato "altamente insufficienti" o "insufficienti". D’altra parte i Paesi che oggi svolgono una tattica ostruzionistica e spossante non si comporterebbero allo stesso modo se gli altri emettitori importanti (USA, Cina, India e UE in primis) facessero sentire il contrappeso mettendo nel piatto impegni ambiziosi di lotta alla crisi climatica.
In questo quadro, se l’anno in corso diventerà l'anno dell’ambizione climatica dipenderà in larga misura dall'UE. Ursula von der Leyen, la nuova presidente della Commissione europea, ha cercato di dare, con il suo intervento alla COP25, un impulso al processo UNFCCC e di riconsegnare all’UE la posizione di leader nelle strategie e politiche globali sul clima. Ella ha dichiarato che l'UE intende essere il primo continente net zero emissions entro il 2050 e che per raggiungere questo obiettivo è necessario agire subito.
L'UE e la Cina hanno programmato un vertice a settembre per aiutare a preparare al meglio la prossima COP di Glasgow. Questo vertice potrà avere successo solo se l'UE non si presenterà a mani vuote. Per esempio, prendendo una decisione prima del vertice con la Cina per rafforzare l'obiettivo di riduzione delle emissioni da qui al 2030. Per renderlo possibile, la Commissione europea dovrebbe pubblicare la sua proposta di revisione degli obiettivi entro i primi 100 giorni dall’insediamento della nuova Commissione, come la stessa von der Leyen ha annunciato. Se la Commissione Europea non manterrà fede alla sua promessa, difficilmente l'UE potrà giungere un accordo interno prima di settembre.
Considerate le sue elevate emissioni storiche e l'elevata capacità economica, tecnologica e scientifica, l'UE ha la responsabilità di assumere un ruolo guida e di non attendere le mosse degli altri big players. La Danimarca, che ha recentemente adottato una legge per ridurre le emissioni nazionali di almeno il 70% al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2030, è un esempio da seguire.
Un’altra questione è il ruolo delle nazioni Unite e dell’UNFCCC. Alcuni già pensano che se nel 2020 il processo negoziale non riuscirà ad elevare le ambizioni climatiche, la società civile e i Paesi più ambiziosi dovrebbero avviare i negoziati su una "corsia preferenziale" (il G-20, per esempio), una sorta di regime parallelo all'UNFCCC e all'accordo di Parigi. Ciò potrebbe minare la legittimità e la credibilità dell’Unfccc e, in fondo, dell’ONU. Per quanto disfunzionali, le COP (e l’Unfccc) sono forse l'unico forum legale internazionale che è (anche se parzialmente) aperto agli osservatori per assistere in prima persona alle dinamiche geopolitiche in materia di clima e alla cultura globale della partecipazione e della testimonianza e, in fondo, per esercitare una pressione sui governi. Da qualche anno alla delegazione delle donne e a quella dei giovani è consentito un seggio nella COP. Gli scioperi del clima da parte dei giovani sono riusciti a spronare le Nazioni Unite, tanto da trovare menzione nelle dichiarazioni ufficiali e, come nel caso della COP-25, persino nel testo finale della decisone. Infine c’è il ruolo dell’UE. Con gli attuali, insufficienti, impegni presentati dalle Parti dell'Accordo di Parigi, l'UE deve intraprendere forti azioni per il clima a livello globale, rafforzare la sua capacità di diplomazia climatica, consolidare le sue relazioni geopolitiche, forgiando di conseguenza la sua politica estera, ma anche quella commerciale, di sviluppo, di cooperazione, sicurezza e prevenzione dei conflitti. L’Italia, che proponendosi di co-ospitare la COP-26, ha dato un segnale chiaro rispetto alle scelte di politica climatica, ha di fronte a sé un’occasione importante per costruirsi un nuovo ruolo sulla scena europea (specialmente dopo la Brexit) e mondiale. Non solo climatica.