È la ferita più dolorosa, l’offesa più profonda mai subita dagli Stati Uniti prima dell’11 settembre, ma anche l’inizio della proiezione mondiale della loro potenza. Parliamo ovviamente dell’attacco del 7 dicembre 1941, esattamente 80 anni fa, quando centinaia di aerei con la bandiera del sol levante si alzarono in due ondate dall'ammiraglia Akagi e dalle altre portaerei Kaga, Soryu, Hiryu, Shokaku e Zuikaku. L’obiettivo era la flotta americana ancorata nella ‘baia delle perle’, a due passi da Honolulu, mentre l'ammiraglio Yamamoto seguiva le operazioni collegato dalla Nagato, alla fonda nella baia di Hiroshima.
Fu un massacro, con oltre 2.400 morti americani, centinaia di feriti e parte della Pacific Fleet annientata. Pearl Harbor segna l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale e l’inizio della fine per le forze dell’Asse, ma la sua importanza non si limita a questo: “Marca anche l’inizio del cosiddetto ‘secolo americano’, espressione inaugurata pochi mesi prima dal magnate dell’editoria Henry Luce”, spiega a Il Bo Live Mario Del Pero, docente di storia della politica estera statunitense presso SciencesPo a Parigi. Per lo studioso l’episodio non si limita a rappresentare l’attacco al suolo americano, l’innocenza violata raccontata in tanti libri e film: “Con esso gli Usa vengono in qualche modo costretti a mettere in asse la loro potenza con un impegno sulla scena internazionale che prima non c'era; non dimentichiamo che saranno l’unico Paese impegnato in una guerra davvero globale, sia sul fronte del Pacifico che su quello dell'Atlantico. Il paradosso è che oggi quella logica interventista viene messa in discussione come non mai: stiamo assistendo alla crisi dello spirito di Pearl Harbor”.
“ Pearl Harbor segna l'inizio del ‘secolo americano’, espressione inaugurata pochi mesi prima da Henry Luce
Facciamo un passo indietro. L’aggressione non nasce dal nulla ma rappresenta il punto di rottura di una tensione durata anni: “Tokyo coltivava un disegno imperiale che contestava il primato Usa nel Pacifico, ma che per realizzarsi necessitava di ampie conquiste territoriali per ottenere le risorse naturali di cui il Giappone era sprovvisto”. Con il ‘discorso della quarantena’ pronunciato da Roosevelt nel 1937, dopo l’invasione della Cina, l’attacco giapponese alla legalità internazionale fu paragonato a un virus da contenere: “Era la fine della breve parentesi isolazionista. Da allora, con un embargo graduale e il congelamento depositi finanziari, gli Stati Uniti iniziarono un lento strangolamento economico del Giappone, il quale si trovò alla fine di fronte alla scelta se cedere o reagire”.
Perché gli Stati Uniti fin dall’inizio presero una posizione molto più ferma nei confronti dei nipponici rispetto a quella verso i tedeschi, con i quali anzi in un primo momento favorirono l’appeasement? Alcuni studiosi – ad esempio lo storico John W. Dower nel libro War Without Mercy: Race and Power in the Pacific War (1986) – hanno sottolineato il razzismo allora insito sia nella società giapponese che in quella americana, la quale a partire dalla presidenza di Woodrow Wilson aveva conosciuto una fase di profonda risegregazione. Peraltro Proprio il Giappone, allora alleato degli Stati Uniti, aveva a suo tempo chiesto che nel Convenant per la costituzione della Società delle Nazioni fosse inserita una clausola sull’uguaglianza razziale, sull’esempio di quella sull’uguaglianza religiosa: la rivendicazione era però stata ignorata da Wilson.
“Il razzismo non basta, ma non può nemmeno essere completamente escluso per spiegare lo scontro tra Stati Uniti e Giappone – continua Del Pero –. Certo è che le guerre in Asia e nel Pacifico furono particolarmente feroci: ce lo dicono le statistiche sulla mortalità dei prigionieri Alleati ma anche il disastroso bombardamento incendiario di Tokyo. Persino l’uso dell’atomica inizialmente non fu percepito come un salto di qualità”. Gli stessi giapponesi a loro volta si erano macchiati di crimini inenarrabili in Manciuria e in Cina: come dimenticare ad esempio il famigerato ‘stupro di Nanchino’, durante il quale le truppe imperiali massacrarono senza limiti e senza alcuna motivazione strategica decine di migliaia di cinesi inermi? “Soprattutto nella prima fase la guerra fu particolarmente dura e cruenta per le truppe americane e i loro alleati – prosegue lo studioso –. A migliaia morirono cercando di contenere l’avanzata giapponese mentre il grosso dello sforzo bellico era concentrato sull’Atlantico, secondo il principio Europe First”.
Eppure furono proprio e Germania e Italia a dichiarare guerra agli Stati Uniti l’11 dicembre 1941, mentre il Giappone si era guardato bene dal farlo con l’Unione Sovietica dopo l’aggressione nazista (nonostante i due imperi si combattessero segretamente da anni). “Sta di fatto che con Pearl Harbor gli Usa furono costretti ad assumersi una responsabilità globale e diventarono l’‘arsenale della democrazia’, fornendo le risorse per combattere agli alleati, inclusa l’Urss – chiosa Del Pero –. Una responsabilità durata ben oltre la guerra ma che proprio negli ultimi anni è entrata in crisi. Soprattutto da quando, con le crisi bancarie del 2007-8, è diventato evidente che la globalizzazione non è stata un bene per tutti ma ha avuto vincitori e vinti, anche all’interno degli stessi Usa”.
Oggi a 80 anni di distanza l’America torna a volgere uno sguardo inquieto verso il Pacifico, anche se oggi l’avversario strategico ha assunto le sembianze del dragone piuttosto che quelle del sol levante: “La globalizzazione a trazione Usa poggiava sull’idea che la Cina fosse pienamente integrabile nel sistema transnazionale di produzione del valore. Con l’inaugurazione di una politica di contenimento nei confronti di Pechino questo schema inizia a crollare”. Siamo dunque alla vigilia di una nuova escalation di tensione, che magari stavolta potrebbe deflagrare a Taiwan o al largo di un’isola del mar cinese meridionale? “Difficilmente la storia insegna e soprattutto non si ripete: gli esseri umani non sono attori completamente razionali – conclude Del Pero –. È chiaro tuttavia che una Cina che aspira al ruolo di potenza globale non è più disposta vedersi circondata dal dominio securitario esplicato dagli Stati Uniti attraverso i suoi alleati. È il dilemma della sicurezza, simile a quello del prigioniero: entrambi gli attori avrebbero convenienza a collaborare, ciascuno però teme di avvantaggiare l’altro. Con il rischio che la ragnatela di azioni, reazioni e controreazioni vada prima o poi fuori controllo”.