SCIENZA E RICERCA
La danza della peste – Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive
Non è una frase fatta: la storia ci aiuta a capire il presente. La storia della nostra salute in particolare è capace di spiegare quello che viviamo oggi durante una pandemia, ma anche la nostra cultura, la politica, l’economia e gli equilibri e i disequilibri di questo mondo. Il libro di Charles Kenny appena uscito in Italia per Bollati Boringhieri poggia sulla sensata ambizione di spiegarlo in sole duecento pagine.
E ci riesce in maniera così convincente che alla fine della lettura si torna all’annosa domanda (annosa per chi si occupa di scienza e queste cose le ha già lette in altri libri, nemmeno tanto recenti, come il monumentale “La peste nella storia”, che è arrivato in Italia nel 1981) perché le grandi trattazioni storiche ignorino l’importanza delle infezioni, perché confinino la salute a questione secondaria rispetto alle guerre e agli intrecci dinastici. Mica peraltro: fino a qualche decennio fa la maggior parte degli umani moriva di quelle, e moriva anche molto presto. Come si può pensare che questo non condizioni tutto il resto?
Charles Kenny, storico ed esperto di economia, per spiegarsi inventa un’immagine: la “danza della peste”, laddove per peste si intende genericamente la malattia infettiva che si propaga per ondate epidemiche. Cioè una danza che investe l’umanità a più riprese, imponendo il suo ritmo alla crescita umana, da sempre e per sempre, senza risparmiare nessun angolo della Terra e della storia nemmeno quello in cui viviamo adesso. Perché, per quanto la scienza abbia fatto tantissimo, nell’ultimo secolo ha eradicato molte meno malattie di quante non ne siano nate, nuove di zecca, pronte a colpirci.
“ Fino a qualche decennio fa la maggior parte degli umani moriva di quelle, e moriva anche molto presto. Come si può pensare che questo non condizioni tutto il resto?
Un passo indietro.
Il motivo chiave di Kenny è la “fuga dalla trappola malthusiana”. Malthus, lui, il reverendo autore del “Saggio sul principio di popolazione”. Che dice, più o meno: se la popolazione umana cresce perché non ci sono freni alla crescita demografica, a un certo punto non avremo più di che dar da mangiare a tutti, ne seguiranno carestie, violenza, aumento della mortalità, e quindi la popolazione umana calerà. E via così, su e giù, sempre ai limiti della vita primitiva, della sussistenza brutale. A meno che non si controlli la crescita della popolazione (con metodi più o meno virtuosi), oppure a meno che non intervenga la miseria, cioè pestilenze, guerre, carestie. Al reverendo Malthus questa seconda possibilità non dispiaceva poi tanto anche se, certo, la moderazione sessuale gli piaceva di più. Le malattie infettive, cioè, hanno mantenuto la popolazione sotto i livelli sostenibili rispetto alle tecnologie di produzione del cibo, soprattutto da quando abbiamo cominciato a vivere in comunità e a coltivare i campi. Perché gli assembramenti umani, le città in particolare, sono posti in cui le infezioni si propagano molto bene, mentre viceversa le infezioni tengono sotto controllo la crescita delle città limitandone l’espansione della popolazione. Ecco la trappola che condanna l’umanità a una vita sempre un po’ misera.
A un certo punto, la fuga. Arriva nel ventesimo secolo grazie alla scienza e in particolare alla medicina, che ci permette di avere vaccini e farmaci e inaugura una rivoluzione: per la prima volta nella storia dell’umanità si muore più per malattie non infettive che per malattie infettive, e quindi si muore molto più tardi, e intanto si ha il tempo per studiare e per vivere meglio. Un indicatore per tutti: adesso decidiamo, e spesso dichiariamo, il nome dei nostri figli quando siamo ancora in gravidanza, e non ci viene più in mente di aspettare, come da tradizione o da vecchia scaramanzia, di vedere se sopravvive alla nascita e alle prime settimane di vita. Nemmeno il Covid-19 è riuscito a invertire questa tendenza.
Ma come è andata fin qui.
Le malattie infettive sono emerse di continuo, sono saltate da specie animale a specie animale, compresa la nostra. Si sono diffuse coi commerci creando un bacino globale di malattie dal quale di quando in quando è emersa una epidemia. Sono cambiate, tanto che le malattie del passato spesso non riusciamo nemmeno a riconoscerle. E, nella loro danza, e nella nostra prima possibilità di resistenza cioè l’isolamento, hanno deciso la fortuna di un popolo e la sfortuna di un altro.
Per dire: in Europa le infezioni hanno deciso la fine dello sfruttamento degli schiavi e l’inizio del Medioevo, poi hanno portato anche al collasso del sistema feudale, perché cambiando la demografia hanno inciso sui costi di produzione e quindi sulla struttura dei sistemi di lavoro. Hanno sterminato dinastie reali. Hanno inaugurato il Rinascimento. A livello globale hanno deciso guerre e promosso l’invasione di interi continenti, hanno causato lo spostamento (spontaneo o forzoso) di interi popoli: hanno costruito gli assetti del mondo che tuttora continuiamo a vedere.
E hanno fatto di più. Hanno stimolato il nostro innato istinto all’esclusione. Siccome l’unica protezione che abbiamo, da sempre, è l’isolamento, le infezioni hanno rinforzato in noi la voglia, più o meno esplicita, di allontanare chi sentiamo estraneo. Hanno giustificato la chiusura di frontiere e continuano a essere il pretesto di razzismi e nazionalismi.
Charles Kenny continua. La lotta alle malattie infettive ha dato forma alle nostre città: l’urbanistica che ha tenuto conto della salute pubblica ha prodotto fogne e cimiteri e poi ha fatto nascere le megalopoli. Ha creato posti di lavoro, ci ha resi ricchi e sani, e ci ha anche convinto a fare meno figli. Ha rimesso in piedi gli eserciti. Ed eccoci daccapo: ci ha riportato in guerra, ci ha spinto a colonizzare continenti lontani e a fondare nuovi imperialismi. Infine ha discriminato tra i ricchi e i poveri della Terra, quelli che ancora non hanno a disposizione farmaci, vaccini, ospedali, e spesso nemmeno acqua e sapone, cioè i figli di quelli che noi europei abbiamo resi schiavi. Quelli a carico dei quali va ancora la maggior parte della mortalità infantile di tutto il mondo, che per due terzi è ancora causata da malattie infettive, e quelli per cui in epoca prepandemica le infezioni causavano ancora dieci milioni di morti all’anno. Ecco come si sta fuori dalla trappola malthusiana. Bene, ma non benissimo.
E poi le malattie infettive tornano e possono sempre tornare. Ne sia di esempio l’HIV, che ci ha travolti dagli anni ottanta, e soprattutto la Covid-19.
Quindi. Se i movimenti antivaccinisti esistono da quando esistono i vaccini, e la resistenza antibiotica esiste da quando esistono gli antibiotici, usare le nostre migliori armi contro le infezioni è questione di scelte e quindi anche di politica. Un esempio: oggi abbiamo a disposizione diversi farmaci contro la disfunzione erettile ma nemmeno un vaccino contro la malaria. Lo abbiamo scelto. E quando un virus della famiglia dei coronavirus ci ha travolti, abbiamo avuto sotto gli occhi la necessità di gestire l’informazione al meglio e di cooperare su scala planetaria, e soprattutto di prepararsi prima. Che significa combattere le infezioni con metodi moderni per non ricadere nella trappola malthusiana e celebrare la più grande vittoria dell’umanità: la salute dei nostri bambini. A noi la scelta.