SCIENZA E RICERCA

Ecosistemi marini mediterranei: una meraviglia che rischia il declino

A volte, le immagini parlano più delle parole. Accade, ad esempio, quando si tratta di comprendere la gravità dei danni che le attività umane infliggono all’ambiente naturale: nessuna pubblicazione scientifica, nessun dato ha la capacità di documentare, con l’immediatezza e l’efficacia di una fotografia, lo stato in cui versano determinati habitat.

Fra gli ecosistemi che più risentono dell’impatto umano vi sono gli ecosistemi marini, molto complessi e altrettanto poco conosciuti, che si trovano a fronteggiare rapidi e simultanei mutamenti – aumento delle temperature, acidificazione delle acque, pesca eccessiva, inquinamento, introduzione di specie aliene – che rischiano di ridurre drasticamente i tassi locali di biodiversità, causando una vera e propria desertificazione dei fondali marini. Questo non avviene unicamente nelle famose barriere coralline dell’Australia e dei Caraibi, ma anche nel mar Mediterraneo, che, a dispetto della sua modesta estensione, custodisce moltissima biodiversità: si stima, infatti che contenga dal 4 al 25% delle specie marine di tutto il mondo.

Egidio Trainito, fotografo naturalista e divulgatore scientifico, è impegnato da molti anni nel documentare il declino di questa inestimabile ricchezza attraverso le immagini, scattate, in oltre trent’anni, pressoché in ogni luogo del Mediterraneo, e in particolare in Sardegna, dove il naturalista vive e lavora. Le fotografie consentono di valutare i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni, e restituiscono un quadro tragicamente accurato di quello che stiamo perdendo. Egidio Trainito ha commentato per Il Bo Live le foto da lui scattate, e i fenomeni che esse mostrano, insieme a Carlotta Mazzoldi, biologa marina e docente all’università di Padova.

L'intervista completa a Egidio Trainito e Carlotta Mazzoldi. Montaggio di Barbara Paknazar

«Uno degli aspetti più preoccupanti dei cambiamenti che gli ecosistemi marini si trovano ad affrontare – esordisce Trainito – è la velocità di questi fenomeni: la ciclicità degli ecosistemi sta venendo meno, e l’accelerazione dei processi di degrado è sempre più evidente, facilmente misurabile anche nell’arco di una vita umana. Il punto è che, normalmente, i processi biologici sono estremamente lenti, sviluppandosi nel corso di centinaia o migliaia di anni».

Un altro fattore che desta preoccupazione è la nostra scarsa conoscenza degli ecosistemi marini: Trainito li definisce “ambienti opachi”, riguardo ai quali la scienza non ha ancora raggiunto un livello di approfondimento pari a quello relativo agli ecosistemi terrestri. Ogni cambiamento, dunque, ci coglie, in una certa misura, impreparati. «Consideriamo l’aumento delle temperature», spiega Trainito. «Nelle acque del Mediterraneo si è registrato, negli ultimi anni, un riscaldamento ben più elevato rispetto alla media globale, e gli ecosistemi del bacino, spesso contenenti specie endemiche, ne risentono pesantemente. Nel corso delle mie osservazioni, sono stato testimone della scomparsa, durante il periodo estivo, del termoclino, lo strato di transizione dalle acque superficiali alle acque profonde, tra le quali vi era un netto mutamento di temperatura: questo gradiente, oggi, è assente per lunghi periodi dell’anno, in particolare durante i mesi estivi, e le alte temperature delle acque superficiali vengono registrate anche in profondità. A risentirne sono, ad esempio, le gorgonie: se anni fa trovavamo popolazioni di gorgonie a circa 18 metri di profondità, oggi bisogna scendere fino a 40 metri per trovare delle popolazioni sane di organismi appartenenti a questo genere».

Le attività umane che generano effetti dannosi sugli ecosistemi sono numerose: dai commerci internazionali condotti per via marittima, che contribuiscono in larga misura alla diffusione di specie invasive, all’inquinamento, alle pressioni sugli ambienti naturali causate dalla pesca eccessiva. È la professoressa Mazzoldi a spiegare lo stretto legame che unisce, in particolare, la pesca alla conservazione degli habitat: «Ecosistemi in salute sostengono anche indirettamente l’attività di pesca: infatti, la perdita di habitat – a prescindere dal fatto che la pesca sia o meno una concausa della degradazione ambientale – accelera il declino degli stock ittici, la cui importanza risiede non solo nel loro valore naturale, ma anche nel valore economico».

«Dal punto di vista della ricerca scientifica, inoltre – prosegue Mazzoldi –, è essenziale che si amplii il bacino da cui traiamo le informazioni relative agli habitat marini. Non possiamo affidarci soltanto alle limitate risorse che vengono messe a disposizione dei progetti di ricerca: dobbiamo iniziare a dare credito a tutte quelle documentazioni scientifiche – ad esempio quelle fotografiche – e alle conoscenze tradizionali delle popolazioni locali e di chi vive e lavora sul mare che, pur non essendo raccolte in maniera strutturata, costituiscono una parte importante della nostra conoscenza, anche in termini storici, dell’ambiente in questione».

La conoscenza è centrale nell’ideare qualsiasi progetto di conservazione e tutela della biodiversità. Tuttavia, riflette Trainito, alla base del nostro approccio al mondo naturale dovrebbe esservi una visione del mondo rinnovata: «Dovremmo riconoscere di essere non dominatori, ma parte degli ecosistemi. Di conseguenza, sarebbe più fruttuoso concentrarsi, più che sul risanamento dei danni causati dalle nostre attività, sull’evitare di creare quei danni, agendo con maggiore umiltà e imponendo limiti concreti alle nostre attività distruttive».

D’altra parte, sottolinea la professoressa, questo punto di vista non può, e non deve, costituire un alibi per l’inazione: «È vero, spesso è impossibile riportare un ecosistema alle sue condizioni originarie. Sicuramente, il primo passo da compiere consiste nel limitare il più possibile gli interventi che hanno effetti nocivi sugli ambienti naturali, ma è altrettanto necessario impegnarsi responsabilmente per ripristinare tutto ciò che può essere ripristinato, anche qualora non fosse possibile tornare alla situazione iniziale. Bisogna essere consapevoli che sarà pressoché impossibile azzerare l’impatto umano: dobbiamo dunque agire attivamente per favorire il recupero degli ambienti che sono stati danneggiati e che hanno bisogno di protezione».

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