Strana cosa i compleanni ai tempi del Covid, con assembramenti vietati e regali in forse: anche se a volte la zona rossa può essere anche un alibi, quando non si ha molta voglia di festeggiare. Vale per le persone come per le nazioni: così è stato il 18 gennaio per il secolo e mezzo del Reich tedesco, nato nella sala degli specchi di Versailles durante l’assedio di Parigi, così accade anche oggi per il 160° anniversario dell’unità italiana, proclamata il 17 marzo 1861 dal neonato parlamento nazionale sotto la corona sabauda (anche se Vittorio Emanuele II rifiutò sdegnosamente di cambiare nome).
Una ricorrenza dovutamente sottotono quella di quest’anno: qualche mostra, alcune iniziative nei musei e nelle scuole, qualche discorso ufficiale. Niente a che vedere con le celebrazioni di 10 anni fa, certo in occasione di un numero ben più tondo. Anche così però un anniversario è un’occasione per riflettere sulla storia comune, magari anche partendo dai luoghi comuni e dalle mancanze come spesso ci piace fare: l’Italia cenerentola, la grande proletaria, il Paese che all’inizio fatica ma alla fine riesce sempre in qualche modo a riscattarsi. Il filosofo e storico tedesco Helmuth Plessner diceva che l’Italia era una nazione ‘arrivata in ritardo’ all’unità (verspätete Nation), e che proprio come per la Germania a questo erano attribuibili molte delle sue patologie. Una ricostruzione che non convince Marco Mondini, docente di storia contemporanea e di storia militare presso l’università di Padova: “L’Italia non era più un Paese giovane già ai tempi del primo conflitto mondiale, quando aveva da poco celebrato il primo cinquantenario ed era stabilmente inserita, anche se con enormi problemi, nel consesso delle potenze europee. La retorica del giovane Stato sembra in realtà fatta per accompagnare le grandi imprese fallite dell’Italia come una sorta di excusatio non petita”.
Sta di fatto che ancora una volta oggi l’Italia è messa alla prova dalla storia, primo grande Paese occidentale toccato dalla pandemia e tutt’ora uno dei più colpiti, eppure ancora miracolosamente in piedi. “Lo Stato nazionale con la pandemia mostra di non essere più sufficiente – spiega lo studioso – ma allo stesso tempo è uno dei gangli fondamentali nella gestione dell’emergenza”. Se insomma la risposta efficace, sanitaria ed economica, rispetto a una pandemia globale non può che essere internazionale, d’altro canto l’emergenza ha riportato lo Stato e i suoi apparati al centro della vita e della discussione pubblica.
Con esiti tanto più bizzarri per l’italia, che per Marco Mondini “sconta 25-30 anni di retoriche politiche, spesso sfruttate da alcuni partiti, che hanno profondamento denigrato il ruolo dello Stato, esaltando il privato rispetto al pubblico e il benessere dell’individuo rispetto a quello della comunità. Con la pandemia invece ospedali e medici, ma anche scuole e università, per la prima volta dopo molto tempo si sono trovati al cuore di una discussione pubblica, e non solo e non tanto per i loro difetti”. Persino le forze armate hanno riguadagnato una centralità inedita con la nomina di Francesco Paolo Figliuolo a nuovo commissario straordinario per l’emergenza Covid-19: “Ho letto critiche e ironie ai limiti del parodistico per il fatto che sia stato chiamato un generale a gestire la logistica della campagna vaccinale. Ironie che denotano anzitutto ignoranza sul ruolo forze armate: la logistica di massa è esattamente la specialità dell’esercito moderno da quando esso esiste”.
Un cambiamento del modo di sentire e di rappresentare lo Stato e i suoi rappresentati che si riflette anche sul linguaggio: “Medici, insegnanti, ricercatori, militari e poliziotti oggi sono definiti addirittura ‘categorie essenziali’! Si tratta in qualche modo di un ritorno alle origini perché lo Stato italiano nasce proprio intorno a scuole e caserme, con il contributo essenziale di maestri, medici, poliziotti e tutti coloro che hanno composto l’architettura della funzione pubblica attraverso cui per 160 anni è stata gestita in maniera più o meno silente la vita degli italiani”.
Un ritorno alle origini a cui la stessa cittadinanza, soprattutto lo scorso anno, è sembrata rispondere ‘stringendosi a coorte’. “L’emergenza ha risvegliato forme di aggregazione che si pensavano sopite – continua lo storico –. Non è stato solo folklore, anche se la dimensione emotiva è comunque essenziale per sentirsi coinvolti in un’identità collettiva. Un osservatore attento come Marc Lazar in articolo su Le Monde di un anno fa notava che per l’appunto dietro alcuni aspetti di questa risposta – i tricolori, la gente che cantava dai balconi – si poteva avvertire a tutti gli effetti un sentimento del ‘noi’ che forse in un Paese come il nostro stupisce ancora. E che ha avuto manifestazioni ben più concrete: anche tra colleghi all’inizio ben pochi avrebbero avrebbe scommesso sull’obbedienza collettiva e generalizzata nei confronti di norme emergenziali estremamente limitanti della vita privata. Ricordo molto bene l’ironia con cui vennero accolte le prime zone rosse: a molti pareva impossibile che gli italiani non si muovessero di casa, sulla base anche di luoghi comuni, peraltro a mio vedere poco veritieri, che vedono gli italiani restii a seguire le regole”.
Così anche stavolta gli italiani hanno obbedito, e la stessa struttura del Paese per il momento sembra tenere nonostante l’enorme stress a cui è sottoposta. “Soprattutto all’estero ha fatto mota impressione la risposta quieta e ordinata degli italiani a questa selva di norme, spesso confusa e per certi aspetti quasi punitiva. Alcuni osservatori parlarono di interiorizzazione della sventura, altri di risveglio dell’identità collettiva. Senza dubbio io ci vedo una connessione con le nostre risposte alle nostre grandi tragedie del Novecento, a partire soprattutto dalla prima guerra mondiale. Al momento però lo Stato si è dimostrato ancora un attore legittimo per decidere in che direzione vanno e come devo essere decise le nostre vite, e non era scontato. Un’eredità particolarmente pesante e profonda, che penso non passerà tanto facilmente, di questa pandemia”.