SCIENZA E RICERCA

Medici del futuro: a scuola di algoritmi anziché di anatomia?

Un sistema di intelligenza artificiale messo a punto da scienziati della Guangzhou Medical University e della University of California, dopo aver ricevuto in pasto più di 100 milioni di dati raccolti da quasi un milione e 400.000 visite ambulatoriali, si sarebbe dimostrato in grado di eseguire una diagnosi di malattie come infezioni alle vie respiratorie, varicella o mononucleosi, con un’accuratezza superiore a quella di pediatri all’inizio della professione e paragonabile invece ai risultati di pediatri esperti. La notizia è apparsa recentemente su Nature Medicine e dimostra, secondo gli autori, l’importanza di strumenti di questo tipo per aiutare i medici a gestire grandi quantità di dati e fornire un supporto decisionale in caso di incertezza diagnostica o complessità. Non è raro, del resto, che sistemi di intelligenza artificiale dimostrino la loro utilità in ambito medico. Un secondo studio pubblicato pochi mesi fa sempre su Nature Medicine, propone per esempio una nuova tecnologia capace di suggerire le migliori strategie terapeutiche nel trattamento della sepsi.

Nella diagnosi – sostiene Gilberto Corbellini, docente di storia della medicina e bioetica all’università La Sapienza di Roma – i sistemi di intelligenza artificiale giungono a risultati più accurati dei medici. E la cosa non mi sorprende. Le macchine riescono a digerire una quantità di dati, a fare comparazioni e a controllare la validità o meno delle diagnosi che propongono con una velocità e una estensione che la memoria umana non può nemmeno immaginare. Gli stessi medici cambiano il modo di fare diagnosi da quando sono novizi a quando diventano più esperti. Da giovani seguono una serie di percorsi e di ragionamenti, ricorrendo a dati che mettono in relazione tra di loro. I medici più anziani, invece, lavorano su pattern: quando vedono una configurazione particolare di segni e sintomi giungono automaticamente a una diagnosi, perché alla base hanno tutto un lavoro di apprendimento, di accumulazione e di esperienza fatto in precedenza. È inevitabile che i sistemi di intelligenza artificiale riescano a fare tutto questo in modo migliore: si tratta di macchine che in linea di principio non hanno limiti in termini di accesso a dati o informazioni”.

I medici in molti ambiti saranno sostituiti. O meglio, diventeranno figure diverse. Non saranno più formati per raccogliere, immagazzinare o selezionare dati, perché tutto diventerà molto più meccanizzato Gilberto Corbellini

Si pensi, per esempio, al sistema di intelligenza artificiale Watson nato in casa Ibm che, secondo uno studio pubblicato un paio di anni fa su Neurology Genetics, sarebbe stato in grado di trovare una potenziale terapia per un paziente affetto da glioblastoma, una forma di tumore cerebrale, in dieci minuti contro le 160 ore necessarie a un team di specialisti.

“Penso che l’intelligenza artificiale – continua il docente – sia sempre più di ausilio e probabilmente i medici in molti ambiti saranno sostituiti. O meglio, diventeranno figure diverse. Non saranno più formati per raccogliere, immagazzinare o selezionare dati, perché tutto diventerà molto più meccanizzato. Il professionista sanitario sarà sempre più un esperto di algoritmi, dato che larga parte del lavoro di elaborazione dei dati inevitabilmente sarà svolto dalle macchine”. Corbellini guarda alla storia. Prima dell’introduzione dell’elettrocardiogramma o dell’elettroencefalogramma i medici raccoglievano informazioni sull’attività cerebrale o cardiaca  con strategie particolari e con una finezza che poi hanno in parte perso con l’introduzione dei nuovi macchinari. I trattati sulle malattie cardiache della seconda metà dell’Ottocento erano composti da decine di volumi in cui venivano descritti rumori che solo medici iperallenati riuscivano a sentire.

In tutto questo vien da chiedersi se la relazione medico-paziente sia a rischio. Secondo Corbellini non si corre questo pericolo, dato che il medico continuerebbe comunque a confrontarsi con il paziente, nonostante l’eventuale impiego di sistemi di intelligenza artificiale. “Il problema potrebbe esistere nel momento in cui il paziente interagisce direttamente con la macchina, come nel caso di robot che raccolgono le anamnesi o che dialogano con le persone. Per alcune malattie mentali si è visto che il dialogo del paziente con la macchina produce benefici non inferiori a quelli che si ottengono con la psicoterapia”. Esempi di questo tipo ce ne sono più d’uno. Tra questi WebMD, una piattaforma online che permette al paziente di ricevere una diagnosi in modo automatico, dopo aver inserito nel database i propri sintomi. Esistono poi app come Woebot, un sistema che conversa con l’utente (chatbot) e aiuta ad affrontare problemi come ansia e depressione attraverso un approccio cognitivo-comportamentale.

Non dobbiamo pensare che l’interazione con le macchine sia solo un male – continua Corbellini – o che sia un danno avere a che fare con strumenti privi di emozioni. Personalmente ritengo che le emozioni siano utili, ma in certe situazioni possono non favorire la comunicazione o creare aspettative (e frustrazioni) nei pazienti. La comunicazione medico-paziente è fondamentale, ma si deve tener presente che non tutte le persone sono uguali: c’è chi preferisce un efficace confronto con il proprio medico e chi invece non vuole tanti sfronzoli. Del resto i medici dal Medioevo agli inizi del Novecento dedicavano molto tempo a chi avevano in cura, ma alla fine non possedevano rimedi che potessero curare le loro patologie. Oggi, magari, i medici sono sbrigativi e dedicano poco tempo ai malati, ma attraverso le nuove conoscenze e tecnologie sono in grado di risolvere i problemi clinici di queste persone”.

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