UNIVERSITÀ E SCUOLA

Padova e la sua università: collaborare per crescere insieme

“Padova vuole essere una città con un’università o una città universitaria? Perché c’è una grossa differenza”. Non fa sconti Patrizia Messina, che nella città veneta insegna Governo locale, Politiche dell’UE per lo sviluppo locale e Governance delle reti per il turismo sostenibile. Mentre ancora si sedimenta l’entusiasmo per l’apertura dell’anno accademico, che segna l’ingresso nel vivo delle celebrazioni per gli otto secoli di storia dello Studium, c’è chi mette in guardia da facili trionfalismi: una grande storia da sola non basta per guardare con fiducia al futuro. “Una città universitaria non nasce per caso, va pensata e progettata – ribadisce la studiosa –: per questo soprattutto ateneo e comune non dovrebbero considerarsi corpi separati bensì collaborare in modo strategico”.

Patrizia Messina coordina Unicity Lab, gruppo di ricerca nato nel 2018 su iniziativa del CISR – Centro di Studi Regionali Giorgio Lago proprio per costituire un luogo di raccordo per lo studio e la coprogettazione di interventi per lo sviluppo strategico di Padova come città universitaria. Un’attività che coinvolge una quarantina di studiosi su sette linee di ricerca e che recentemente ha portato alla pubblicazione de La città universitaria come fattore strategico di sviluppo: il caso di Padova, numero speciale monografico della rivista Regional Studies and Local Development.

Il volume (scaricabile gratuitamente in formato digitale) ospita una serie di interventi che documentano con dati e analisi diversi aspetti del rapporto tra ateneo e territorio: dal mercato immobiliare alla rigenerazione urbana. E i risultati sono interessanti, anche se non del tutto tranquillizzanti. Se da una parte ad esempio si registra la tendenza all’internazionalizzazione dell’ateneo padovano, con un tasso di iscritti stranieri che nell’anno accademico 2019-2020 ha toccato il 5,3%, dall’altro si assiste alla sua regionalizzazione, con un aumento di studenti pendolari rispetto ai fuori sede residenti in città. “Prima gli iscritti venivano anche dalle grandi città e in parte dal Sud, oggi soprattutto dai piccoli centri dall’area metropolitana del Veneto”, conferma Patrizia Messina.

Gli studenti residenti diminuiscono per i costi del soggiorno e negli ultimi anni anche per il Covid, che ha spostato online parte delle attività didattiche: eppure, nonostante tutto l’indotto generato dalle attività collegate alla loro presenza sia stato colpito, secondo la docente il rapporto con questi giovani continua a far notizia solo quando diventa un problema, come nel caos della ‘movida’ al Portello. Un esempio è l’ultima campagna per le elezioni comunali: “Di università si è parlato pochissimo, mentre ad esempio a Torino si è trattato di un punto fondamentale del programma della coalizione vincitrice per la riconversione e il rilancio della città”.

Sta di fatto che, durante l’anno accademico, ogni giorno circa 25.000 pendolari arrivano in città per studiare, seguire le lezioni e sostenere gli esami, ma anche per fare shopping e frequentare locali, mostre, cinema e teatri. Una massa di City users che avrebbe bisogno spazi e servizi specifici, ma le cui esigenze sono spesso ignorate. “C’è sicuramente bisogno di più residenzialità e mense universitarie, ma anche di luoghi dove stare durante il giorno come alternativa a bivaccare nei bar – continua Messina –. Aule e biblioteche non bastano: i posti sono insufficienti e soprattutto sono concepiti per uno studio tradizionale, mentre servirebbero anche spazi per riunioni e co-working. Quelli disponibili nel nuovo polo del Beato Pellegrino ad esempio sono sempre pieni”. Quanto ai servizi urbani, a cominciare dal trasporto pubblico, sono essenziali non solo per i residenti ma anche per gli studenti pendolari, che però non hanno alcuna voce in capitolo: una vera e propria contraddizione per una città che invecchia e vede diminuire i residenti.

Anche riguardo la residenzialità la situazione è difficile: gli stranieri e i fuorisede italiani rimasti continuano a scontare storici pregiudizi, a cui si aggiungono le attuali difficoltà del mercato degli affitti, con tanti appartamenti riconvertiti a bed & breakfast o al turismo di breve periodo. “Così si guadagna di più e ci sono meno rogne – continua docente –. Un problema soprattutto per gli studenti africani, in particolare maschi, che sono più in difficoltà per trovare alloggio e allo stesso tempo ne hanno particolare bisogno per avere il permesso di soggiorno e i documenti”.

Il rapporto tra università e territorio insomma investe una serie di aspetti, spesso antichi e in gran parte ancora irrisolti. Problemi che non riguardano solo Padova, dato che è tutto il Nordest a risultare oggi poco attrattivo: tra studenti universitari che arrivano ed escono il saldo negativo nel 2017 in Veneto è stato del 5,8%. Secondo i dati contenuti in una recente nota della Fondazione Nord Est i saldi migratori per gli immatricolati risultano positivi in Emilia-Romagna (+25.000) e negativi per Veneto (-12.000): un problema che si ripropone anche dopo la fine degli studi, con una parte consistente di neolaureati che lascia la regione (2.300 nel 2018) per cercare il proprio futuro all’estero o altrove in Italia, a cominciare da Lombardia ed Emilia-Romagna. Per Messina “il sistema produttivo veneto non assorbe laureati. Le imprese hanno un bel lamentarsi di non trovare ingegneri: le competenze ci sono ma spesso domanda e offerta non si incontrano. Mancano al momento sinergie come quelle che hanno portato alla conclusione di accordi tra le università emiliano-romagnole e il distretto della Motor Valley”.

Anche per questo anche il gruppo di ricerca Unicity propone la costituzione di uno urban centre per lo studio e il coordinamento delle politiche di sviluppo di Padova, sull’esempio di quello istituito a Bologna sotto forma di fondazione. “Mancano però anche gli strumenti amministrativi per governare il territorio – conclude Messina –: Padova ad esempio non è una città metropolitana, a differenza di capoluoghi come come Bologna, Milano e Torino, e questo la svantaggia anche nell’accesso a fondi pubblici come quelli del Pnrr. Occorre infine uno sforzo anche da parte degli studenti nell’organizzarsi, esprimere i loro bisogni e tradurli in domanda politica”. A fare la differenza insomma è capacità di collaborare da parte dei diversi soggetti presenti sul territorio: un obbligo più che una scelta per chi vuole continuare a perseguire l’eccellenza. Anche dopo 800 anni.

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