SOCIETÀ

Potere al popolo

Ciao Pietro. Le colleghe e i colleghi della redazione ti vogliono ricordare nel modo più bello: attraverso i tuoi articoli, il tuo pensiero critico e sempre puntuale. Tra i tanti pezzi che hai scritto – sarebbero troppi da mettere tutti – abbiamo fatto questa selezione che vorrebbe riassumere i tuoi molti punti di vista sulla scienza, sulla società e sulla storia di entrambe.

 

Potere al popolo, titola la rivista americana Science. Al popolo informato, ci permettiamo di aggiungere noi. Né Science né noi ci riferiamo al voto presidenziale degli Stati Uniti, esempio massimo di democrazia rappresentativa, che in queste ore tiene viva l’attenzione del mondo intero. Ci riferiamo a problemi di medio e lungo periodo – i cambiamenti climatici, per essere chiari – e a una forma di democrazia che ci è meno familiare ma che sembra essere in qualche modo emergente: la democrazia deliberativa.

Science si riferisce a un esempio concreto: la UK Climate Assembly che ha appena consegnato il suo rapporto sulla politica climatica al Parlamento di Sua Maestà Britannica. Questa assemblea sul clima è costituita da 110 cittadini del Regno Unito scelti a caso che per molte settimane si sono riuniti con esperti – scienziati che studiano i cambiamenti climatici – e, in modo informato, hanno avanzato le loro proposte di gestione politica del tema al Parlamento (il quale è, naturalmente, libero di accettarle o meno, in toto o in parte). L’obiettivo è chiaro e democratico: sentire il popolo, ovvero i cittadini che non solo né scienziati esperti del problema né politici professionali. 

Ora la storia delle democrazie ci ha proposto finora, in buona sostanza, due sistemi per “sentire il popolo”, quelli che gli esperti chiamano “democrazia rappresentativa” (io eleggo i miei rappresentanti in parlamento o in qualsiasi altra assemblea elettiva e delego a loro le scelte) e la “democrazia diretta”, in buona sostanza il referendum. 

Queste due modalità si sono rilevate insufficienti a rappresentare la voglia di compartecipare attivamente alle scelte, anche di natura scientifica, in questa nostra era che viene definita (a ragione) della conoscenza. Noi tutti vogliamo dire la nostra direttamente su tutte le questioni, anche su quelle che implicano conoscenza tecnica e scientifica. E vogliamo che la nostra volontà di compartecipazione abbia degli effetti concreti, seguendo regole democratiche s’intende. C’è una Convenzione delle Nazioni Unite, nota come Convenzione di Aarhus, che spiega bene cose intendiamo: noi tutti abbiamo diritto a essere informati al meglio delle conoscenze disponibili sulle questioni ambientali (ma potremmo allargare il discorso a ogni altro tema) per poter agire. Ovvero incidere sulle scelte. 

Tutto questo esprime una domanda emergente di nuovi diritti di cittadinanza, che molti chiamano diritti di cittadinanza scientifica. E che esprimono null’altro che la crescente influenza che hanno la scienza e l’innovazione tecnologica nella nostra vita individuale e sociale. Questa domanda di compartecipazione alle scelte di natura scientifica e tecnologica che ci riguardano ha già avuto riconoscimenti giuridici: i medici, per esempio, hanno il dovere di acquisire il nostro consenso informato prima di poter intervenire su di noi. E la Convenzione di Aarhus riconoscere sia il nostro diritto a un’informazione piena sullo stato dell’ambiente (a ogni livello, locale e globale) sia il nostro diritto a compartecipare alla costruzione di un futuro ambientale desiderabile. 

Ebbene, in svariati ambiti la democrazia rappresentativa non riesce a interpretare e a dare risposta a questa nostra voglia di partecipare: una voglia tipica e ineludibile di una società democratica della conoscenza. Nella democrazia rappresentativa altri scelgono per noi, sebbene da noi delegati. E in ogni caso i nostri spazi di partecipazione non solo alle scelte, ma anche alla loro realizzazione sono insufficienti. C’è il referendum, si dirà, per dare “potere al popolo”. Ma anche questo strumento di “democrazia diretta” è enormi limiti. I principali sono due: impone di rispondere in maniera secca – con un sì o con un no – a problemi complessi, che avrebbero bisogno di risposte molto articolate e finemente modulate. Il secondo è che lo a rispondere sono chiamati cittadini che, in buona parte, sono ben poco informati che prendono decisioni poco ponderate. Il referendum è un esempio di riduzionismo democratico.

Occorreva (occorre) una terza via. Non alternativa alle altre due, ma integrativa. Eccoci dunque alla democrazia deliberativa, di cui l’UK Climate Assembly è un esempio. Niente affatto unico. Science ci ricorda che forme di democrazia deliberativa si stanno diffondendo in tutta Europa con successo e consentono ai cittadini di esprimersi, in maniera informata, sui temi più vari. 

Tra il 2016 e il 2018, per esempio, mini assemblee di cittadini accuratamente informati sono state chiamate a esprimersi tanto sul tema della legalizzazione dell’aborto sia sulla possibilità di quadruplicare la carbon tax entro il 2030.

Quest’anno, in piena pandemia, una mini assemblea di 149 cittadini debitamente informati sono stati chiamati in Francia a esprimere le loro raccomandazioni al presidente Emmanuel Macron una opinione informata appunto alle politiche ambientali, contribuendo tra l’altro alla definizione di un nuovo crimine, quello di ecocidio, e a inserire in costituzione gli obiettivi cardine dal contrasto ai cambiamenti climatici.

Il coronavirus ha, invece, fatto rinviare iniziative simile in Danimarca, Scozia e in Spagna. Insomma, la democrazia deliberativa da ipotesi accademica sta diventando una piccola ma concreta forma di partecipazione democratica. Una forma che, ribadiamo, non sostituisce né quelle di democrazia rappresentativa né quelle di democrazia diretta. In Irlanda, per esempio, le piccole assemblee informate sono state propedeutiche al referendum (democrazia diretta) sulla legalizzazione dell’aborto.

Perché è importante anche per noi (soprattutto per noi) la notizia di una crescente sperimentazione di democrazia deliberativa rilanciata da Science? Be’, il motivo è che nell’elenco dei paesi che hanno iniziata a frequentarla l’Italia non c’è. Noi non siamo quasi mai – certo non a livello regionale e nazionale – chiamati a esercitare ed esporre le nostre opinioni informate. La nostra domanda di diritti di cittadinanza scientifica e di compartecipazione viene così elusa. 

Le ricadute sono anche pratiche. In quasi tutti i paesi dell’Europa più occidentale, ormai, scelte sensibili vengono effettuate senza forti e dilanianti contrasti, mentre qui da noi diventano spesso una questione di ordine pubblico. Un esempio? La realizzazione o meno della TAV, la ferrovia ad alta velocità tra Italia e Francia, da noi ha portato e porta ancora a disordini, al di là delle Alpi è stata sostanzialmente risolta con la partecipazione attiva della popolazione interessata, i cosiddetti stakeholders.

La domanda di partecipazione di tutti i cittadini a scelte tecniche, lo ripetiamo, è tipica della società della conoscenza. Ed è ineludibile. Ma se male organizzata, se chiama a esprimersi cittadini non informati espone la società ai venti della demagogia. Se invece è bene organizzata e chiama a esprimersi cittadini sempre più consapevoli, allarga gli spazi di democrazia senza cedere nulla all’efficienza e all’efficacia delle scelte. 

Forse è il caso che anche in Italia inizino a essere sperimentate forme di democrazia deliberativa, ovvero di partecipazione consapevole. I cittadini sono pronti, lo hanno dimostrato molto spesso negli ultimi lustri. E le istituzioni? 

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