Tempi strani per le statue, un tempo ospiti quasi invisibili delle nostre piazze e oggi di nuovo assurte al centro del dibattito. A volte per reclamarne l’abbattimento, come accade in Europa e negli Stati Uniti, altre per chiedere che nuove memorie e figure entrino a far parte dello spazio pubblico. Come accade in questi giorni a Padova, dove si ragiona sulla possibilità di aggiungere tra le statue di Prato della Valle un monumento che ricordi Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, la prima donna laureata al mondo.
Un modo per celebrare una delle cittadine più illustri, ma anche per riequilibrare almeno in parte una situazione che al momento non vede nessuna donna tra i 78 padovani (di nascita o di vita) raffigurati. Una proposta che come era prevedibile ha fatto nascere molte polemiche, ma che può essere anche l’occasione per posare uno sguardo diverso dal solito su uno degli spazi più caratteristici di Padova. “In origine l’idea delle statue viene al provveditore veneziano Andrea Memmo proprio per finanziare la sistemazione del Prato – spiega a Il Bo Live Stefano Zaggia, docente di storia dell’architettura presso l’università di Padova –. Un vero e proprio sistema di fund raising che da un lato contribuiva all’abbellimento del luogo, dall’altro permetteva di completare i lavori: chi finanziava la statua, seguendo precise indicazioni su altezza, materiali e caratteristiche, doveva anche completare i tratti corrispondenti di marciapiede e di banchina sul canale, che inizialmente era solo un fosso scavato nella terra”.
“ In origine le statue servivano ad abbellire e a finanziare la sistemazione del Prato della Valle
La sottoscrizione andò avanti per decenni, dal 1776 fino alla seconda metà dell’Ottocento: tra le figure rappresentate ci sono personaggi mitologici come Antenore, padovani di nascita o acquisiti come Tito Livio, Andrea Mantegna e Giovanni Dondi dell'Orologio, ma anche personaggi collegati in altro modo alla città come quattro papi, tutti veneziani (Paolo II, Eugenio IV, Alessandro VIII e Clemente XIII), letterati e intellettuali come Petrarca, Tasso, Ariosto e Guicciardini, personalità internazionali come i re polacchi Jan Sobieski e Stefano I Báthory e il sovrano di Svezia Gustavo II Adolfo Vasa. Il tutto approvato e realizzato sotto le indicazioni dei Presidenti del Prato, la magistratura cittadina creata nel 1767 con il compito di tutelare l’invaso e di seguire le attività economiche e ludiche che vi si svolgevano.
Secondo Zaggia “il risultato è un vero e proprio intervento urbano concepito in prima persona da Memmo, che a sua volta si ispira all’insegnamento del padre francescano e architetto Carlo Lodoli, sotto molti aspetti anticipatore dei principi dell’architettura funzionale”. L’obiettivo è valorizzare uno spazio incolto e malsano, vera e propria palude urbana che tuttavia svolge funzioni di carattere civico e sociale ospitando fiere e corse di cavalli. “I prati urbani non erano infrequenti nelle città del tempo – continua Zaggia –: pensiamo al Prado di Madrid o ai campi veneziani, che in principio non erano lastricati. Poi arriva il Settecento riformatore nella figura di un politico e intellettuale come Andrea Memmo, che immagina un intervento per rilanciare la città il cui motore sia proprio il Prato, da un punto di vista sia urbanistico che economico”.
Lo strumento è la realizzazione di un’‘Isoletta sacra al commercio ed all’arti’, secondo la definizione del letterato padovano Melchiorre Cesarotti: un nuovo baricentro per una città ancora legata a doppio filo alle sue tradizioni e che non ha conosciuto una stagione di grande rinnovamento edilizio come quello programmato e sostenuto da Scipione Maffei a Verona. Un’arretratezza rispetto alle grandi correnti artistiche e architettoniche internazionali che colpisce in particolare i visitatori stranieri: ‘non è possibile veder niente di più povero, di più triste e più disabitato’, scrive ad esempio l’intellettuale ed enciclopedista Charles des Brosses durante il suo viaggio in Italia nel 1739-40.
Prato della Valle in un dipinto del Canaletto, realizzato tra il 1741 e il 1746
Memmo si impegna nel rilancio di Padova basato sulla risistemazione del Prato, di cui segue la realizzazione anche dopo la fine del suo mandato al governo della città. Un progetto che proprio nelle statue trova uno dei tasselli fondamentali, ma che all’inizio non viene accolto bene dai padovani. L’idea originaria di creare uno spazio polifunzionale che serva per il passeggio, una delle attività tipiche del Settecento, ma allo stesso tempo anche per assistere a spettacoli e fare acquisti, non riesce a decollare: il progetto di realizzare un imponente edificio destinato a negozi e botteghe vicino a Santa Giustina, una sorta di centro commerciale ante litteram, non vedrà mai la luce a causa dell’opposizione del vicino monastero della Misericordia.
Il Prato rimane dunque uno spazio imponente ma allo stesso tempo incompiuto: iconico ma in qualche modo separato dalla città. In questo quadro si colloca la proposta dirompente di Giuseppe Jappelli, padre del Caffè Pedrocchi, che nel 1824 propone addirittura di spostarvi la sede dell’università. Il progetto viene però bocciato dall’amministrazione austriaca e l’area continua a cercare un suo ruolo nel tessuto cittadino fino a tempi recenti, quando l’asfalto la trasforma in una colossale rotatoria mentre il dannunziano ‘prato molle, ombrato d'olmi e di marmi’ diventa centro di spaccio e di traffici illeciti.
Oggi con la riscoperta della vocazione turistica della città, doppiamente riconosciuta dall’Unesco come scrigno di arte e di bellezza, il Prato vive l’ennesimo rilancio anche come pantheon civile e custode delle memorie municipali. Un ruolo questo mai del tutto neutro ed esente da pericoli: proprio i basamenti vuoti sul ponte nord dell’Isola Memmia, che potrebbero un giorno accogliere il simulacro di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, erano in origine occupati dalle statue di due dogi che furono abbattute durante l’occupazione napoleonica, in seguito alla caduta della Serenissima. Oggi l’attenzione generale torna dunque a puntare sull’area: la speranza è che non si limiti alle statue e che soprattutto non si riveli effimera. “Il Prato è uno spazio in parte ancora incompleto, su cui sono possibili interventi che però devono essere calibrati e soprattutto discussi – conclude Zaggia –: ben venga quindi ogni occasione per tornare a riflettere su quello che è uno spazio vitale per la città”.