SCIENZA E RICERCA
Quando i fischi non sono solo in campo: riflessioni sulla cyberviolenza di genere
“Torna in cucina”, “In cucina al massimo si tagliava un dito”, “Se avesse semplicemente preparato il sugo della domenica”.
È questo il tenore delle frasi che appaiono sui social media per commentare la vicenda che ha vissuto un’arbitra di calcio spagnola. Durante una partita, quest’ultima non ha visto una telecamera e l’ha colpita con il volto, infortunandosi. Un infortunio di questo tipo sarebbe potuto accadere anche a un collega di genere maschile. Tuttavia, negli articoli precedenti di questa serie, abbiamo imparato che stereotipi di genere come “il calcio è da maschi” e “i mestieri di casa sono da femmine” si sviluppano fin dall’infanzia e continuano ad essere diffusi in età adulta.
Nel contesto online diventa, quindi, importante comprendere per quale motivo ci si sente legittimati e legittimate a commentare i post in questo modo e domandarsi se sono i social media a rendere le persone così sessiste e aggressive.
In questo articolo, approfondiamo alcune dinamiche tipiche dei social media che portano ad attribuire alle tecnologie digitali la responsabilità della promozione e della diffusione del linguaggio d’odio. Per questo motivo risulta fondamentale, soprattutto in relazione alle questioni di genere, discutere della “cyberviolenza”, cioè un insieme variegato di comportamenti aggressivi messi in atto attraverso le tecnologie digitali.
E’ ormai noto che le tecnologie digitali abbiano facilitato la nascita di comportamenti nuovi (es., hate speech e revenge porn) e contribuito ad esacerbare forme “tradizionali” di discriminazione e violenza contro le donne e le minoranze di genere e sessuali, come nel caso di cyberstalking e cyberbullismo (European Institute for Gender Equality, 2022). Per introdurre il problema osserviamo qualche dato.
Una rassegna degli studi sulle principali forme di violenza perpetrate online (come il digital dating abuse, revenge porn, sexting, online misogyny e cyberbullismo) ha evidenziato che la maggior parte delle vittime online sono di genere femminile, ad eccezione del cyberbullismo. Inoltre, uno studio svolto in Italia, basato sui dati di Twitter, ha analizzato 2.650.000 tweet in un periodo di 7 mesi trovando che 400.000 di questi tweet contenevano insulti. Di questi, una percentuale del 60% era indirizzata alle donne. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato che una donna su 3 ha avuto un’esperienza di violenza online durante la sua vita e 1 su 10 prima dei 15 anni; il 5% delle donne aveva subito stalking online. Sette donne su dieci, vittime di violenza online, hanno anche subito almeno una forma di violenza fisica/sessuale da parte del partner o dell’ex partner. Rispetto alle forme più invisibili e insidiose di cyberviolenza, sembra che il 71% degli autori di violenza domestica controlli il computer della partner e il 54% ne tracci i cellulari con software appositi (Save the Children, 2020). Ecco, questi dati ci sembrano sufficienti per comprendere quanto sia fondamentale parlare di questo tema con una prospettiva di genere. Ma sono i social media ad alimentare questa situazione? La risposta, come spesso accade, è piuttosto complessa.
Il mondo digitale, e i social media in particolare, presentano alcune caratteristiche che modificano il modo in cui entriamo in relazione con le altre persone. Alcune delle features tipiche dei social media sono indicate dal “Transformation Framework” proposto da Nesi e colleghi (2018) ed entrano direttamente in gioco nelle dinamiche tipiche della cyberviolenza:
- l’assenza di cue fisici: le diverse forme di violenza online sono caratterizzate dalla perpetrazione senza contatto fisico e da qualsiasi luogo nel mondo perché la mancanza di segnali non verbali diminuisce la percezione dell’importanza delle norme sociali e favorisce la disinibizione;
- la permanenza: testi di post e commenti, immagini, foto e video possono moltiplicarsi e continuare a essere presenti online per molto tempo o per sempre, contribuendo a propagare la cyberviolenza nella società e a prolungare, potenzialmente all’infinito, le conseguenze psicologiche negative per le vittime;
- la dimensione pubblica: cioè l’accessibilità dei contenuti (violenti) a un pubblico vastissimo che è possibile raggiungere con pochissimo sforzo;
- l’asincronia: le comunicazioni sui social media spesso non accadono in tempo reale garantendo, quindi, più tempo per scrivere, leggere i messaggi e preparare una risposta. Di conseguenza, aumenta l’intervallo di tempo tra le diverse fasi della comunicazione, si può essere coinvolti o coinvolte in più interazioni simultanee e la scelta delle parole violente, in quanto riflettute, può essere ulteriormente dolorosa.
Queste caratteristiche, insieme a molte altre tra cui, ad esempio l’anonimato, favoriscono l’effetto di disinibizione online, cioè la tendenza ad agire in modo più disinibito online rispetto alle interazioni faccia a faccia, portando ad aumentare la percezione di legittimità dei commenti d’odio e del linguaggio sessista.
Nel complesso, le caratteristiche dei social media hanno trasformato il modo di essere in relazione con altre persone e si intersecano con le caratteristiche individuali (es., tratti di personalità, bisogni psicologici) che, a loro volta, sono influenzati da aspetti sociali (es., norme sociali) e del contesto allargato (es., la cultura della società).
Dal punto di vista psicologico, adottando l’ottica del modello Compensatory Internet Use Theory (Kardefelt-Winther, 2014), “il bisogno” di base di chi utilizza i social media per veicolare messaggi negativi potrebbe essere il frutto di un ambiente culturale reale che tollera comportamenti volti alla violenza di genere. Il “bisogno” di chi commenta in modo negativo potrebbe essere quello di trovare riconoscimento e accettazione da parte di altri/e utenti che condividano il medesimo punto di vista. Se le persone si sentono legittimate a scrivere insulti o commenti sessisti potrebbe essere perché sanno che potrebbero trovare riconoscimento e validazione in risposta al loro “bisogno”. Quindi, se, come sappiamo, il contesto culturale in cui siamo collocati può alimentare la cultura del possesso e un certo tipo di stereotipi per quanto riguarda i ruoli di genere, il legame tra interazioni online e offline diventa imprescindibile.
In conclusione, la letteratura scientifica suggerisce che i social media possono esasperare la manifestazione incontrollata di stereotipi e squilibri di potere presenti all’interno della società attraverso attacchi, abusi verbali, ricatti e violenze che trovano spesso uno sconcertante consenso e un altrettanto indignato dissenso, come nel caso dell’arbitra spagnola. E questo è vero soprattutto quando le persone (caratterizzate da alcuni fattori di rischio di cui parleremo nel prossimo articolo) agiscono online con scarsa consapevolezza di ciò che fanno e delle relative conseguenze. Occorre quindi puntare sulla prevenzione dei comportamenti online disfunzionali e sulla promozione di un uso positivo delle tecnologie digitali. Interventi che abbiano come target tutta la popolazione, a partire già dalla prima infanzia, potrebbero avere un potere enorme nella creazione di nuove norme sociali online positive che diminuiscano la probabilità di mettere in atto comportamenti violenti sui social media. Se la vita offline e la vita online non possono più essere distinte, deve aumentare la consapevolezza che quello che succede nel mondo virtuale è assolutamente reale (soprattutto per le vittime), e cercare di diffondere la gentilezza online, verso chiunque.