Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, affresco, 1509-1511, Sala della Segnatura, Musei Vaticani (foto: Contrasto)
Quale fu l’impegno di Raffaello nelle Stanze che ai Musei Vaticani portano il suo nome? "Possiamo tranquillamente dire che le Stanze Vaticane rappresentano per Raffaello quello che per Michelangelo è stato il lavoro nella Cappella Sistina", racconta Costantino D'Orazio a Il Bo Live, presentando così l'ultima tappa di questo nostro viaggio alla scoperta dell'arte di Raffaello, in occasione del cinquecentesimo anniversario della morte. "Sono l’apice della sua ricerca, il luogo in cui dà prova di saper gestire ogni motivo della pittura: corpi, volti, individui, folle, architetture, paesaggi, buio, luce, emozioni forti, momenti di intimità. Il repertorio di figure che Sanzio lascia in quegli ambienti è il manuale d’arte cui attingeranno generazioni di artisti per oltre trecento anni. Pensare che vi sia arrivato a soli venticinque anni, sbaragliando la concorrenza di maestri come Perugino e Sodoma, convincendo Papa Giulio II ad affidargli l’intero cantiere senza che avesse mai prima affrescato grandi superfici, ci offre una prova plastica del suo irresistibile fascino. In quelle tre stanze Raffaello ha intrecciato storia, cronaca, teologia, filosofia, letteratura e mitologia superando ogni steccato, inaugurando uno stile che ha saputo fondere tutte le scuole regionali attive in quel momento nella penisola italiana. Come le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo hanno contribuito ha creare una lingua nazionale, oltre i dialetti, così la Stanze di Raffaello hanno messo le radici per la nascita della pittura italiana, oltre qualsiasi localismo".
Realizzata tra il 1509 e il 1511, per le Stanze Vaticane (Musei Vaticani, Roma), la scena proposta nell'affresco della Scuola di Atene - nella Stanza della Segnatura che avrebbe dovuto ospitare la biblioteca di Papa Giulio II ma che, dopo la sua scomparsa, diventerà per alcuni anni sede del tribunale ecclesiastico - è inserita in una architettura rinascimentale ispirata al progetto di Bramante per la basilica paleocristiana di San Pietro ed è popolata dai più celebri filosofi dell'antichità. Al centro si mostra Platone, che ha le sembianze di Leonardo e punta un dito verso l'alto tenendo nell'altra mano il Timeo, accanto a lui c'è Aristotele con il libro dell'Etica. E ancora, Pitagora è intento a spiegare sul libro il diatesseron, mentre sdraiato sulle scale vi è Diogene. Euclide, sulla destra, insegna geometria agli allievi, Zoroastro regge il globo celeste, Tolomeo quello terrestre. All'estrema destra, ecco spuntare il volto dello stesso Raffaello.
Il rapporto burrascoso tra l'affabile Raffaello e il sanguigno Michelangelo si rivela qui nella scelta dell'Urbinate di raffigurare il filosofo pessimista Eraclito con le sembianze di Michelangelo, in quegli stessi anni impegnato a dipingere la Cappella Sistina. Ben visibile nella scena, il pensoso Eraclito - con la guancia molle abbandonata sulla mano, i piedi incrociati, il corpo in torsione e lo sguardo basso - resta isolato dagli altri: è appoggiato a un blocco di marmo, seduto e visibilmente stanco, immerso nella sua malinconia. La figura, inserita in un secondo momento, non compare nel cartone preparatorio dell'opera (conservato alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano).
Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, affresco, 1509-1511, Sala della Segnatura, Musei Vaticani
Di questo affresco, e in particolare della questione legata all'inserimento della figura di Eraclito/Michelangelo, si occupa in maniera molto approfondita lo stesso D'Orazio in Raffaello segreto (Sperling & Kupfer), libro che precede il volume Raffaello, il giovane favoloso (Skira), tante volte citato durante questo viaggio nell'arte e nella vita dell'Urbinate: "Una tradizione vorrebbe che sia stato proprio Papa Giulio II a chiedere al pittore di inserire un omaggio a Michelangelo nella Scuola di Atene, dopo avere visto comparire sia Bramante sia Leonardo su quelle pareti. Raffaello sceglie la zona più libera della scena e inventa una figura che ricorda vagamente la posizione del profeta Isaia dipinto dal maestro fiorentino sulla volta della Cappella Sistina, di cui nell’agosto 1511 era stata svelata una prima parte. C’è chi sostiene che l’urbinate ne sia stato folgorato e abbia accettato di buon grado di realizzare questo tributo. Ma forse la sua reazione è stata ben altra [...] Vasari racconta che, alla vista della Sistina, il giovane pittore mutò subito maniera, ma in questo caso non possiamo dire di essere di fronte a un atteggiamento di reverenza. Sanzio riduce Buonarroti quasi a una caricatura".
E D'Orazio continua: "I due si muovono all’interno dell’ambiente pontificio in modo praticamente opposto. La loro rivalità non si limita alla normale competizione, ma rivela come all’epoca sia possibile interpretare la professione di pittore in maniera diversa e inconciliabile. Sanzio è l’artista cortigiano, mondano e arrivista, Buonarroti il genio spigoloso, scostante e saturnino. Con la sua solita sagacia, Raffaello coglie in pochi tratti l’indole del collega e prende le distanze dal suo carattere impossibile, offrendo alla curia romana un nuovo argomento di conversazione e, probabilmente, di sommesse prese in giro. Uno scherzo tanto ben congegnato da suscitare accese discussioni ancora oggi".