SCIENZA E RICERCA
L’ingrediente segreto delle cene paleolitiche non era la carne, ma la biodiversità
Nell’ultimo decennio si è sentito spesso parlare di paleodieta, termine usato in generale per descrivere un regime alimentare basato sul consumo degli stessi alimenti che si ipotizza fossero al centro della dieta dei Sapiens prima dello sviluppo dell’agricoltura. Su premesse simili si basa anche il fenomeno dei meatfluencer, ovvero di quegli influencer che pubblicizzano sui social media una dieta basata principalmente sul consumo di prodotti di origine animale e scevra di cibi vegetali. Come racconta un recente approfondimento su Scientific American, i sostenitori più accaniti di queste diete iperproteiche credono che esse somiglino maggiormente a quelle seguite dagli uomini e dalle donne del Paleolitico, e che siano quindi più salutari per la nostra specie.
Ma quanta carne mangiavano effettivamente Sapiens e Neanderthal nel Paleolitico? Questa domanda, al di là delle diatribe alimentari contemporanee, è al centro di un dibattito paleoantropologico che cerca di ricostruire il più possibile le abitudini “a tavola” della nostra specie in epoche remote per approfondire la storia dell’evoluzione umana.
“L’immagine del cacciatore paleolitico è una figura ormai insita nell’immaginario collettivo”, riflette l’archeologa Anna Revedin, già direttrice dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, dove attualmente svolge attività di consulenza e coordina il progetto PLUS_P (PLant USe in the Palaeolithic). “La maggior parte delle persone credono che i nostri antenati, quando ancora non coltivavano né allevavano, fossero prevalentemente cacciatori. Questa convinzione ha influenzato il lavoro anche di molti ricercatori”.
Come afferma Revedin, la nostra storia più antica coincide, in un certo senso, con quella dell’alimentazione; le principali fonti presenti negli scavi archeologici sono resti di pasto (come le ossa degli animali che venivano cacciati) e oggetti utilizzati per le attività di raccolta ed elaborazione del cibo (come schegge di selce e di pietra usate come coltelli o proiettili). L’abbondanza di questo tipo di reperti nei siti archeologici ha alimentato l’immagine collettiva che i nostri antenati fossero principalmente cacciatori e carnivori.
“Anche le pitture paleolitiche che ritraggono i grandi animali della fauna preistorica – come bisonti, elefanti e mammut – hanno concentrato l’attenzione della comunità scientifica sulla dieta carnivora”, continua Revedin. “I resti vegetali sono invece estremamente deperibili e quindi difficili da individuare. Inoltre, lo studio delle popolazioni primitive attuali (fonte “indiretta” importante per gli antropologi che cercano di ricostruire le abitudini degli esseri umani antichi, ndr), suggerisce che i cacciatori ricoprissero un ruolo socialmente più rilevante. All’interno delle comunità antiche, però, c’erano anche persone dedite alla raccolta, l’unica attività che poteva davvero assicurare una continuità alimentare al gruppo”.
La carne, insomma, non era la componente principale dei regimi alimentari ancestrali. “Proprio come accade oggi, non tutte le popolazioni seguivano lo stesso tipo di dieta”, continua Revedin. “Le abitudini alimentari, infatti, dipendono dall’ambiente in cui si vive, dal passaggio delle stagioni e anche dall’epoca. La preistoria, infatti, è un periodo estremamente lungo”.
Gli studi condotti dal team di Revedin si concentrano, in particolare, sull’uso di risorse vegetali nella fase più recente del Paleolitico, cioè quella in cui vivevano Neanderthal e Sapiens. “Non è possibile calcolare precisamente il consumo di carne rispetto a quello di prodotti vegetali”, spiega l’archeologa. Tuttavia, è possibile ottenere qualche indizio attraverso l’analisi dei resti archeologici associati alle diverse attività di preparazione del cibo. Tali indagini suggeriscono che la raccolta fosse importante almeno quanto la caccia. “Si calcola che l’apporto medio dei cibi vegetali costituisse il 50-60% della dieta”, continua Revedin. “D’altronde, gli animali non sono sempre facili da catturare; le piante, al contrario, sono sempre reperibili, specialmente in alcuni ambienti particolarmente favorevoli. Sono inoltre più semplici da conservare e da trasportare”.
A prescindere dalla quantità di carne consumata dai nostri più antichi antenati, bisogna comunque considerare che il consumo di proteine animali, sebbene non costituisse la base dell’alimentazione, abbia rappresentato un vantaggio evolutivo per il genere Homo rispetto alle specie da cui discende.
“Rispetto ai nostri primi antenati frugivori, l’aggiunta di un apporto carneo alla dieta ha attivato un processo evolutivo favorevole per la nostra specie, migliorando in particolar modo le capacità cerebrali necessarie a sviluppare il comportamento predatorio”, spiega Revedin. Infatti, rispetto a un animale vegetariano, uno carnivoro (o onnivoro) deve acquisire e sviluppare delle strategie di caccia che richiedono un certo sforzo cognitivo.
Ma non solo. Il carnivorismo, come sottolinea l’archeologa, ha reso la dieta delle specie umane antiche molto più diversificata. “Credo sia questo il punto chiave”, prosegue. “I nostri antenati seguivano una dieta estremamente varia, che comprendeva carne, frutta, verdura e carboidrati, i quali oggi vengono aborriti dai sostenitori delle diete iperproteiche, ma che invece costituivano parte integrante del regime alimentare degli esseri umani antichi”.
Come anticipato, ricostruire in maniera dettagliata la dieta di Sapiens e Neanderthal durante il Paleolitico non è un’impresa facile, perché richiede uno studio approfondito basato sull’incrocio di diversi tipi di fonti. “Oltre alle tracce di proteine animali trovate negli scavi archeologici, è importante esaminare anche i resti umani conservati in questi luoghi”, prosegue Revedin, che spiega come tali reperti possano fornire molte informazioni a partire, ad esempio, dalle sostanze rimaste tra i denti di questi fossili o dallo studio degli isotopi conservati nel collagene delle loro ossa. “Attraverso questo genere di indagini si è ipotizzato, ad esempio, che i primi Sapiens seguissero una dieta più varia rispetto a quella degli ultimi neandertaliani, alcuni dei quali (ma non necessariamente tutti) consumavano un’ingente quantità di proteine animali”.
Anche l’analisi del dna antico rappresenta un metodo di indagine fondamentale che permette di scoprire, ad esempio, se determinati individui fossero in grado di digerire alcuni specifici alimenti, come i carboidrati o il latte. “Per fare un esempio pratico (che però riguarda tempi più recenti, successivi alla nascita dei primi allevamenti), l’esame genetico consente di rilevare la presenza di un enzima chiamato lattasi, che indica che un determinato individuo fosse in grado di digerire il latte anche in età adulta”, precisa l’archeologa.
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Le ricerche di Revedin approfondiscono, in particolare, l’utilizzo di piante e vegetali nella preistoria non solo nell’alimentazione, ma in tanti altri aspetti della vita quotidiana che riguardano, ad esempio, le opere edilizie, la produzione di capi d’abbigliamento, nonché la progettazione di sistemi per ottimizzare il trasporto e la conservazione dei cibi. “La manipolazione degli alimenti al fine di renderli più digeribili o conservabili ha un significato importante dal punto di vista evolutivo, perché richiede capacità che superano la semplice abitudine di cogliere un alimento, come ad esempio un frutto, e mangiarlo”, sottolinea l’archeologa. “Le nostre ricerche sui microresidui vegetali ci hanno permesso di ricostruire alcune attività di elaborazione delle piante selvatiche nel Paleolitico. Ad esempio, nell’insediamento di Bilancino, in Toscana, risalente a 30.000 anni fa, abbiamo trovato delle macine e dei pestelli. Su questi strumenti abbiamo rinvenuto, in particolare, dei granuli di amido di una pianta palustre, la Typha”.
La scoperta di queste antichissime tracce legate alla produzione di farina ha spinto Revedin e i suoi collaboratori a svolgere ricerche analoghe in altri giacimenti. Abbiamo infatti rinvenuto un pestello sul quale erano conservate alcune tracce di amido di cereali anche in un sito Neanderthal. “Ciò che salta all’occhio dallo studio di queste lavorazioni così antiche delle piante è la varietà di specie vegetali utilizzate”, spiega l’archeologa. “Oggi ci si concentra prevalentemente su colture come il grano, il riso o il mais. Nell’antichità, al contrario, si faceva largo uso della biodiversità. I nostri antenati ricavavano delle farine – alcune delle quali particolarmente ricche di proprietà nutritive e povere di glutine – da piante che non si credeva fossero adatte a tale scopo”.
Insomma, sembra che la dieta onnivora abbia rappresentato un vantaggio evolutivo per il genere Homo non tanto (o comunque, non solo) a causa del consumo di carne, quanto, piuttosto, grazie all’ampia varietà di cibi di cui era composta. “Credo che in futuro gli studi sul dna e sui microresti di amido potranno gettare nuova luce su questo processo evolutivo anche in epoche più remote”, riflette l’archeologa.
Tracce di una pittura rupestre nel sito sulle montagne di Cederberg, Sudafrica. Foto: Contrasto)
I risultati delle ricerche di Revedin e coautori confutano quindi l’idea che la carne fosse la componente principale della dieta dei primi Sapiens. “Il principale vantaggio evolutivo degli esseri umani rispetto agli altri animali è legato alla loro capacità di adattarsi a tanti tipi di ambienti differenti e, di conseguenza, alle diverse disponibilità di cibi presenti al loro interno”, afferma la studiosa, la quale ritiene che, se proprio volessimo trarre ispirazione dalla vita quotidiana dei nostri antenati, dovremmo puntare meno sul consumo di alimenti iperproteici e più sulla varietà della nostra dieta e su uno stile di vita sano. “Penso che il patrimonio vegetale offra una vasta e diversificata gamma di risorse nutritive che è tutta da scoprire”, conclude l’archeologa.