SOCIETÀ
Quanto cacciavano le donne nel Paleolitico? E perché la risposta ci interessa?
Quando pensiamo alle società paleolitiche, una delle principali immagini che si formano nella nostra mente mostra gli individui di sesso maschile lanciati alla riconcorsa di grossi animali selvatici. Le donne, sullo sfondo, intente nella raccolta di frutta e verdura. Scene di questo tipo riflettono l’idea secondo cui la divisione del lavoro in base al genere sia emersa fin dagli albori della nostra storia, costituendo perciò un tratto culturale fondamentale nell’evoluzione umana. Eppure, tale credenza potrebbe essere solo uno stereotipo, costruito inizialmente dai primi antropologi ed etnografi occidentali a cavallo tra il XIX e il XX secolo, e poi perpetuato nel corso dei decenni, fino a oggi. Alcuni studi recenti suggeriscono, infatti, che le diverse attività quotidiane, caccia compresa, fossero divise molto più uniformemente tra uomini e donne rispetto a quanto si pensasse. Questo argomento è stato sollevato di recente sulle pagine di The Conversation dalle antropologhe Sarah Lacy e Cara Ocobock in un contributo dal titolo Forget man the hunter (tradotto letteralmente: “dimenticate l’uomo cacciatore”).
La controversia rispetto all’esistenza della caccia femminile deriva però da un dibattito più ampio rispetto al ruolo delle donne nelle società antiche. Il problema è che il riferimento alla divisione sessuale del lavoro nella preistoria non è neutrale, bensì finalizzato a dimostrare che i compiti più importanti o prestigiosi fossero quelli assegnati agli uomini. Si tende spesso a pensare, infatti, che le prime scoperte sul mondo, le innovazioni tecnologiche e persino le forme di espressione artistica (come le pitture rupestri) siano state tutte opera degli uomini, ignorando completamente il contributo dell’intera metà del genere umano. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso è nata perciò l’archeologica di genere; questo filone di studi si occupa di approfondire il ruolo delle donne nel mondo antico, basandosi sull’idea secondo cui la cultura patriarcale e le secolari discriminazioni di genere nella storia occidentale abbiano determinato una svalutazione delle donne paleolitiche.
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Ma a che punto è oggi il dibattito scientifico rispetto all’esistenza di donne cacciatrici nelle società paleolitiche? E quanto è stato effettivamente sminuito o dimenticato il contributo femminile in questo ambito di ricerca? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Enza Spinapolice, archeologa del Paleolitico all’università “La Sapienza” di Roma.
“Fin dalla nascita della disciplina, gli studi di paleontologia si sono concentrati sull’“uomo” inteso come “maschio”, e non come “umanità” in senso lato”, spiega Spinapolice. “D’altronde, gli studiosi coinvolti in questo ambito di indagine a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, erano quasi tutti di sesso maschile. Nella società contemporanea, invece, stanno emergendo molte istanze femminili e femministe che hanno permesso di riconsiderare sotto una nuova luce alcune vecchie scoperte e ipotesi, modificando allo stesso tempo il modo in cui vengono comunicate le nostre conoscenze sulla preistoria”. Ad esempio, come ricorda Spinapolice, oggi le illustrazioni dei libri scolastici tendono a rappresentare anche le donne, al contrario di quanto accadesse un decennio fa.
“Questo impegno è senz’altro importante per riallineare un po’ la visione che abbiamo del passato”, prosegue l’archeologa. “D’altronde, se oggi esistiamo è perché ci hanno partoriti; quindi, è impensabile considerare marginale il ruolo della donna nella storia dell’evoluzione. Dobbiamo comunque ricordare che i tentativi di approfondire e rivalutare la partecipazione delle donne alle società tradizionali continuano da almeno cinquant’anni, ovvero fin dalla nascita dell’antropologia di genere. Anche il mito di Man the hunter è stato già ampiamente discusso negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, perciò il dibattito odierno non è che una rivisitazione di riflessioni proposte all’epoca rispetto al giusto modo di integrare la preistoria nella nostra quotidianità”.
La principale difficoltà che incontrano gli scienziati che tentano di ricostruire gli assetti sociali del Paleolitico è dovuta, come sottolinea Spinapolice, alla scarsa disponibilità di tracce archeologiche materiali che diano informazioni utili a riguardo. “Per sopperire a questa mancanza di dati paleoantropologici, ci si basa solitamente sull’osservazione delle società di cacciatori-raccoglitori attuali e subattuali. Il mito del Man the hunter ha origine proprio dalla maggior parte dei report compilati dagli antropologi del secolo scorso, che hanno documentato in queste comunità la prevalenza di cacciatori di sesso maschile. Ciò è dovuto al fatto che nelle società di cacciatori e raccoglitori, le donne vivono generalmente una gestazione ogni tre anni e, quando non sono incinte, devono occuparsi di allattare, curare e trasportare i piccoli. Gli studiosi antichi hanno perciò proiettato il modello osservato nelle comunità attuali e subattuali anche nel passato, nonostante non possiamo essere certi che vi sia una perfetta corrispondenza tra le società contemporanee e quelle antiche”.
Uno studio pubblicato quest’estate su PLOS ONE ha riacceso il dibattito sulle donne cacciatrici. Il lavoro in questione si basa su un database costruito sulla base delle informazioni contenute negli atlanti etnografici del secolo scorso relative a diverse comunità di cacciatori-raccoglitori documentate negli ultimi cento anni. I risultati di questo studio suggeriscono che la presenza di donne cacciatrici fosse maggiore rispetto a quella raccontata finora, mettendo quindi in discussione il paradigma della divisione di genere del lavoro.
“Il problema è che questa ricerca rischia di sovrastimare la partecipazione delle donne alle attività di caccia, perché tiene solo conto solo dell’esistenza della caccia femminile, ma non della sua frequenza o della quantità di donne cacciatrici”, specifica Spinapolice “Era già nota, comunque, l’esistenza di alcune battute di caccia cooperative a cui prendevano parte anche le donne, le quali contribuivano specialmente alle fasi di trasporto e macellazione delle prede, oltre che alle operazioni di essiccazione e lavorazione delle pelli, altrettanto importanti per la comunità.
Si tratta, inoltre, di stabilire cosa si intende quando si parla di caccia. In molte società etnografiche attuali e subattuali conosciute, le donne si occupano di catturare alcuni animali di piccola taglia, talvolta utilizzando delle trappole. Per quanto riguarda invece la caccia grossa, allora potrebbe anche darsi che, nelle società preistoriche, tale attività fosse prevalentemente maschile”.
In ogni caso, anche se le donne non cacciavano quanto gli uomini, questo non vuol dire che non dessero un contributo fondamentale alla società.
“Personalmente non ritengo sia così fondamentale appurare che le donne cacciassero quanto gli uomini nella preistoria”, sostiene Spinapolice. “Forse lo sarebbe se avessimo evidenza del fatto che nelle società antiche questa attività fosse legata al prestigio, così come accade in alcune comunità attuali. In questo caso, la rivalutazione della caccia femminile servirebbe a dimostrare che le donne godessero dello stesso prestigio sociale degli uomini. Ma questa relazione non è affatto certa.
Il ruolo della donna, al di là della caccia, è stato comunque fondamentale nelle società antiche, e non solo dal punto di vista della riproduzione e della gestazione. Ad esempio, il modello della Woman the gatherer (cioè della donna raccoglitrice), contrapposto a quello del Man the hunter, è al centro di un famoso libro degli anni Ottanta a cura dell’antropologa Frances Dahlberg; secondo questa teoria, erano proprio le donne a procurare la maggior parte delle calorie presenti nella dieta delle società etnografiche, poiché l’apporto delle proteine animali era spesso minimo. La carne, in altre parole, non era il cibo di tutti i giorni.
Perciò, caccia o meno, dovremmo piuttosto concentrarci sul fatto che le donne nelle società antiche fossero empowered, cioè forti e capaci di ricoprire ruoli di prestigio. È importante, soprattutto, che la narrazione del passato non sia dominata dalla prospettiva maschile; senza però manipolare i dati scientifici”.
Come gli antropologi e gli etnografi antichi hanno interpretato le evidenze archeologiche attraverso il filtro del loro sistema di valori maschilista e patriarcale, è altrettanto possibile che oggi venga commesso un errore analogo. Anche noi, in altre parole, rischiamo di rappresentare il passato alla luce di ciò che vorremmo vedere nella società di oggi, come l’uguaglianza di genere e l’instaurazione di rapporti paritari tra uomini e donne.
Come commenta Spinapolice, è probabilmente impossibile condurre ricerche in paleoantropologia, archeologia ed etnografia con uno sguardo oggettivo e completamente svincolato dalla nostra cultura di riferimento; è importante però esserne consapevoli. “Queste discipline non sono affatto lontane dal mondo contemporaneo, come potrebbe sembrare”, afferma l’archeologa. “Al contrario, sono profondamente ancorate nel presente perché sulla loro base vengono costruite identità e narrazioni spesso utilizzate anche nel dibattito politico. Questo vale oggi, così come cinquant’anni fa. Ognuno interpreta le tracce del passato attraverso il filtro del proprio tempo, l’importante è non forzare la mano”.
Il vero problema, come accennavamo all’inizio, è che le divisioni di genere (vere o presunte) nel mondo preistorico vengono talvolta utilizzate per giustificare le disparità odierne. In pratica, si rischia erroneamente di concludere che se la divisone di ruoli in base al genere sia comparsa così anticamente, essa rappresenti un vantaggio per l’evoluzione della nostra specie, ed è perciò sensato perpetuarla. Forse, allora, dovremmo compiere un passo ulteriore e ricordarci che noi non viviamo nel Paleolitico e che quindi, a prescindere dall’organizzazione delle società antiche, ciò non significa che nel nostro presente, né tantomeno in futuro, sia sbagliato combattere contro il patriarcato.
“Certamente è importante capire cosa succedesse nel passato, ma anche se dovessimo scoprire che le nostre antenate siano sempre state sottomesse, questo non dovrebbe scoraggiare la battaglia per la rivendicazione dei nostri diritti, semmai alimentarla. A noi infatti interessa quello che scegliamo di fare oggi, e oggi non vogliamo più essere sottomesse.
“ Se dovessimo scoprire che le nostre antenate sono sempre state sottomesse, questo non dovrebbe scoraggiare la battaglia per la rivendicazione dei nostri diritti, semmai alimentarla
“Oggi possiamo decidere come utilizzare le conoscenze che abbiamo del passato e quindi anche come comunicarle ai nostri figli e figlie. Non è escluso che nel corso della storia dell’evoluzione ci siano stati dei momenti in cui gli uomini fossero effettivamente avvantaggiati rispetto alle donne a causa della loro maggiore forza fisica e alla mancanza di gravidanze e del ciclo mestruale. Ma la nostra società, al contrario di quella paleolitica, ci permette di contrastare queste differenze sia con la scienza che con la cultura, capace di influenzare molto il nostro comportamento, anche inconsciamente.
Dobbiamo infine considerare che il Paleolitico copre un arco di tempo molto lungo, durante il quale si sono susseguite società anche molto diverse, le quali si sono adattate a condizioni ambientali sempre mutevoli”. È verosimile, perciò, che la verità rispetto all’esistenza di donne cacciatrici nel Paleolitico non sia la stessa per ognuna delle tante società che hanno abitato il mondo durante quel periodo.