SOCIETÀ

La fragile pace tra Congo e Rwanda, mediata dagli interessi minerari di Trump

L’accordo di pace raggiunto tra Repubblica Democratica del Congo e Rwanda, firmato la scorsa settimana nello studio ovale della Casa Bianca, è senza alcun dubbio una buona notizia. Soprattutto perché potrebbe porre fine, o almeno attenuare, quel devastante conflitto che va avanti da oltre trent’anni (tutto ebbe inizio con il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati in Rwanda nel 1994, pianificato e realizzato con indicibile ferocia, e con l’unica motivazione dell’odio razziale, dall’esercito rwandese e dalla formazione paramilitare interahamwe di etnia hutu) e che ha provocato da allora milioni di morti e milioni di sfollati, oltre a una delle più gravi e persistenti catastrofi umanitarie (definirle “crisi” è riduttivo) che l’Onu si sia mai trovata ad affrontare. Da allora il conflitto è diventato altro, con il coinvolgimento di oltre 100 gruppi armati, il più potente dei quali, il Movimento 23 marzo (più noto con l’acronimo M23), di fatto sostenuto dal governo del Rwanda, ha invaso la regione più orientale della Repubblica Democratica del Congo, prendendo recentemente il controllo di grandi città come Goma, e di una vasta area che contiene ricchezze minerarie d’immenso valore (quantificabili nell’ordine di 24mila miliardi di dollari), in gran parte ancora non sfruttate. 

Il “tesoro” del Congo 

Restano però dei dubbi, piuttosto consistenti, sull’efficacia reale e le possibilità di “tenuta” dell’accordo, firmato a Washington dai ministri degli esteri delle due nazioni africane. «Questo è un Grande Giorno per l’Africa e, francamente, un Grande Giorno per il Mondo!», ha scritto testualmente Donald Trump (maiuscole comprese) sul suo social Truth. Il presidente americano continua ad assecondare la sua smania di presentarsi come “pacificatore”, ma non nasconde la reale portata dell’accordo, che consentirà agli Usa di mettere le mani sull’enorme ricchezza che giace nel sottosuolo della Repubblica Democratica del Congo, una delle nazioni più grandi del continente africano, con oltre 110 milioni di abitanti: «Stiamo assicurando agli Stati Uniti una grande quota dei diritti minerari congolesi», ha ammesso Trump durante una conferenza stampa che ha preceduto la firma sull’accordo di pace. Il “tesoro” che ha mosso l’interesse dell’amministrazione americana (va bene la pace, ma che frutti qualcosa) è rappresentato non soltanto dall’oro e dai diamanti, ma soprattutto dai “minerali critici”, cobalto e coltan, elementi essenziali per diverse produzioni green, dalle batterie per i veicoli elettrici ai pannelli solari, alle turbine eoliche, agli smartphone. Tutti minerali che gli Stati Uniti sono “storicamente” costretti a importare. Almeno finora, o almeno questo è il proposito di Trump. Mentre sono in via di definizione due accordi separati, uno con la RDC, l’altro con il Rwanda, che dovrebbe portare miliardi di dollari di investimenti americani nella regione. Ma non può esserci investimento con una guerra in corso. Come spiegava lo scorso aprile l’inviato del governo americano Massad Boulos, annunciando la futura partnership mineraria: «Abbiamo bisogno di un ambiente favorevole alle imprese per raggiungere questo obiettivo. Siate certi che le aziende americane operano in modo trasparente e stimoleranno le economie locali. Stiamo parlando di investimenti multimiliardari. Stiamo parlando di posti di lavoro, trasferimento di conoscenze e investimenti nelle infrastrutture. Non ci può essere prosperità economica senza sicurezza». Per comprendere meglio la portata del potenziale investimento americano (del settore privato, s’intende): la RDC detiene il 60% delle riserve globali di coltan. Ed è inoltre il più grande produttore di cobalto, al punto che nel 2024 ha raggiunto il 70% del totale mondiale. 


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Parlavamo prima dei dubbi sull’efficacia del trattato di pace. Il primo riguarda proprio il ruolo dei gruppi di ribelli. Si legge nell’accordo: “Le bande armate coinvolte nel conflitto possono essere reintegrate nelle forze di sicurezza congolesi solo dopo un controllo individuale basato sulla lealtà, l’idoneità e i diritti umani”. L’accordo, inoltre, rafforza il principio di sovranità, d’integrità territoriale e la coesistenza pacifica dei due Paesi confinanti, con l’impegno a fermare tutte le ostilità e qualsiasi sostegno ai gruppi armati. Eppure la più importante organizzazione ribelle, la M23, non è stata interpellata né coinvolta nei negoziati. Corneille Nangaa, leader della Congo River Alliance (AFC nell’acronimo francese, una coalizione formata da 17 partiti politici e diverse milizie armate, compreso l’M23) e acerrimo nemico del presidente congolese Félix Tshisekedi, ancora lo scorso marzo dichiarava minaccioso all’Associated Press: «Tutto ciò che ci riguarda e che viene fatto senza di noi, è contro di noi. L’accordo minerario con gli Stati Uniti non ci fermerà: combatteremo come persone che non hanno nulla da perdere per garantire il futuro del nostro paese».  

L’incognita dei “ribelli” 

Tuttavia nell’accordo firmato alla Casa Bianca, non si fa mai menzione dell’M23, che controlla diverse miniere della regione (il governo del Rwanda è sospettato di aver importato e poi venduto illegalmente quei minerali in tutto il mondo), se non nella parte in cui si rimanda a successivi “negoziati in corso” a Doha, con la mediazione del Qatar, tra Repubblica Democratica del Congo e AFC/M23. Mentre è previsto che il Rwanda ponga fine alle sue “misure difensive”, che ritiri per 90 giorni (non moltissimi) le truppe ruandesi dal Congo orientale e che s’impegni per smantellare definitivamente le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), una milizia hutu legata al genocidio del 1994, ormai non più attiva e numerosa come un tempo. Secondo il ministro degli Esteri rwandese, Olivier Nduhungirehe, i colloqui separati in corso in Qatar hanno lo scopo di portare sia il Congo che i ribelli dell’M23 a concordare tra loro come porre fine ai combattimenti. Entrambe le nazioni si sono impegnate a interrompere qualsiasi forma di sostegno alle fazioni ribelli.  


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Ma nessuno (a parte Trump, forse) s’illude che le firme sul trattato di Washington bastino per placare definitivamente le ostilità nella regione africana dei Grandi Laghi. «Alcune ferite guariranno, ma non scompariranno mai completamente», ha dichiarato il ministro degli Esteri del Congo, Therese Kayikwamba Wagner, promettendo “buona volontà”. «Coloro che hanno sofferto di più ora ci stanno guardando. Si aspettano che questo accordo venga rispettato e noi non possiamo deluderli». Mentre il suo omologo rwandese, Olivier Nduhungirehe, ha mostrato prudenza mettendo in rilievo la “grande incertezza” che avvolgerà i prossimi passi: «La strada da percorrere non sarà facile. Ma con il continuo sostegno degli Stati Uniti e di altri partner, crediamo che sia stato raggiunto un punto di svolta».  

«Questo accordo non è la pace» 

Sono diverse tuttavia le perplessità sollevate da molti analisti e attivisti. Una delle critiche più autorevoli, e feroci, arriva da Denis Mukwege, medico e attivista congolese, premio Nobel per la pace 2018: «Questo è un accordo profondamente sbagliato che sacrifica la giustizia, la sovranità e il futuro del popolo congolese», ha dichiarato senza troppi giri di parole, citando le parole pronunciate da Papa Francesco, nella sua visita a Kinshasa nel 2023 (in quell’occasione il Papa aveva condannato «il continuo sfruttamento del Congo attraverso il neocolonialismo politico, economico e militare»). Mukwege ha riassunto così la situazione: «In passato gli accordi di pace sono falliti proprio perché hanno ignorato la giustizia, integrando i signori della guerra nelle istituzioni statali e barattando la verità con un’illusione di stabilità. Questo accordo non è la pace: è il seme che porterà ulteriori conflitti e atrocità di massa». Sulla stessa linea Amnesty International: «Il recente accordo di pace firmato tra la Repubblica Democratica del Congo e il Rwanda non affronta la questione della giustizia per le vittime di gravi crimini, non includendo alcuna disposizione volta a chiamare i loro autori a rispondere delle loro azioni», è scritto in un comunicato firmato da Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. Che ha aggiunto: «Senza affrontare il problema dell’impunità per gli orribili crimini commessi nella parte orientale della RDC, l’accordo ha perso l’opportunità di affrontare con decisione un fattore di lunga data del conflitto». Amnesty sostiene inoltre di avere “notizie credibili” secondo cui anche nei giorni successivi alla firma dell’accordo, l’M23 sostenuto dal Rwanda e i gruppi armati Wazalendo (“patrioti” in lingua swahili), molti dei quali appoggiati (anche militarmente) dall’esercito congolese, hanno continuato a scontrarsi nelle province del Nord e del Sud Kivu, provocando la morte di un numero imprecisato di civili. In un report pubblicato alla fine dello scorso maggio, anche Human Rights Watch aveva denunciato che proprio i Wazalendo si erano resi responsabili di “abusi diffusi contro i civili”, dalle estorsioni alle violenze d’ogni genere, nella provincia del Sud Kivu.  

Un’analisi pubblicata pochi giorni fa da AInvest, una piattaforma d’investimenti supportata dall’Intelligenza artificiale, metteva in fila le “fragilità dell’accordo” anche da un punto di vista finanziario: «I rischi principali – scrive AInvest - sono la governance debole (la storia di corruzione e di tensioni etniche nella RDC rimane irrisolta, mentre i ribelli dell’M23, che controllano le zone minerarie strategiche, potrebbero resistere al disarmo), e lo sfruttamento neocoloniale (il coinvolgimento delle aziende statunitensi rischia di ripetere i modelli di estrazione dell’era coloniale, in cui i profitti fluiscono all’estero mentre i locali vedono pochi benefici)». 

Insomma: tanta incertezza, che s’intreccia ad altrettanta speranza. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha accolto “con favore” la firma dell’accordo di pace firmato a Washington: «È un passo significativo verso la de-escalation, la pace e la stabilità nella Repubblica Democratica del Congo orientale e nella regione dei Grandi Laghi», ha dichiarato. Confermando tuttavia che la missione dell’Onu MONUSCO, che ha il compito di “stabilizzare la pace” nella Repubblica Democratica del Congo, «rimane pienamente impegnata a sostenere l’attuazione dell’accordo, in stretto coordinamento con l’Unione Africana, e i partner regionali e internazionali». Anche se, è notizia di poche ore fa, l’Onu è stata costretta a interrompere le indagini sulle violazioni dei diritti umani nell’est della Repubblica Democratica del Congo a causa della mancanza di fondi. Perché ci sono paesi che non pagano i contributi previsti. Come gli Stati Uniti, che nel 2024 avevano versato 36 milioni di dollari: al 31 maggio di quest’anno il contributo americano è sceso a zero.  

 

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