
Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva parla durante un'intervista con Reuters al Palazzo Alvorada di Brasilia, Brasile, 6 agosto 2025. REUTERS/Adriano Machado
Il presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva ha posto il veto su 63 articoli dei 398 della “Lei da Devastação”, la legge della devastazione, com’era stata ribattezzata dalle ong ambientaliste. Una legge che era stata approvata prima al Senato (21 maggio) e poi alla Camera dei Deputati (14 luglio) dalla maggioranza conservatrice che domina il Congresso brasiliano con il sostegno della lobby dei grandi imprenditori agricoli. Poi però la parola è passata al presidente Lula, che aveva davanti tre strade: firmare il testo, respingerlo in blocco (esponendosi però al rischio di ricorsi legali), oppure apportare modifiche mirate. E quei 63 articoli sui quali ha posto il veto erano il “cuore” del provvedimento, che con il pretesto di snellire la burocrazia andava a favorire gli interessi dell’agrobusiness e dell’industria mineraria calpestando il rispetto dell’ambiente (le ong l’avevano definita “la più grande battuta d’arresto ambientale in più di 40 anni”, dalla fine della dittatura militare). Come il comma che avrebbe consentito ai progetti considerati di “impatto ambientale medio” di ottenere licenze (agricole, minerarie, energetiche, infrastrutturali) attraverso un’autocertificazione online di “conformità ai requisiti”, saltando qualsiasi studio preliminare. O come l’altro punto, che escludeva la maggior parte delle comunità indigene dall’avere voce in capitolo sulla concessione delle licenze nei loro territori. «Con il veto parziale apposto da Lula, la legge mantiene protezioni speciali per diversi territori indigeni e la Foresta Atlantica» ha dichiarato Marina Silva, ministra dell’ambiente. «Il nostro obiettivo è garantire che il Brasile possa inaugurare un nuovo ciclo di prosperità, in cui l’economia non combatte con l’ecologia, ma fa parte della stessa equazione».
L’opposizione dell’estrema destra
I sostenitori della legge della devastazione fondavano la loro proposta sull’urgenza di percorrere la via della flessibilità, snellendo drasticamente le procedure burocratiche: per attrarre investimenti, per generare posti di lavoro, per dare impulso alle opere strategiche per lo sviluppo economico del Paese. Ma a quale prezzo? Il presidente Lula ha tentato un compromesso, ponendo il veto sugli articoli più “permissivi”, ma annunciando anche che firmerà una misura provvisoria per rendere immediatamente efficace una “Licenza Ambientale Speciale” che consentirà di autorizzare lavori e progetti più rapidamente, anche indipendentemente dall'impatto ambientale, purché la costruzione sia considerata strategica dal governo federale. Ora il testo modificato (26 articoli cancellati, 37 riformulati) tornerà al Senato, corredato da un disegno di legge “urgente” redatto dal governo: vuol dire che quei veti proposti da Lula dovranno trovare l’appoggio necessario per essere approvati. Anche la misura provvisoria dovrà essere approvata entro 120 giorni dal Congresso Nazionale per non perdere la sua validità. Ma il passaggio è tutt’altro che scontato, dal momento che il Brasile è di fatto allo “stallo legislativo”, con i parlamentari fedeli all’ex presidente Bolsonaro fermamente schierati nel chiedere l’amnistia per il loro leader (ora agli arresti domiciliari con l’accusa di aver organizzato un tentativo di colpo di stato nel 2022) e per centinaia di attivisti di estrema destra accusati di aver preso parte agli scontri. Appare improbabile che si possa arrivare a una trattativa sul punto.
L’intervento del governo brasiliano va decisamente incontro, pur senza accoglierle interamente, alle istanze di preoccupazione espresse da diversi studiosi e dalla totalità delle ong ambientaliste: il timore condiviso è che l’Amazzonia, ecosistema prezioso ma esposto da un lato agli effetti del cambiamento climatico (siccità, incendi) e dall’altro dall’intervento dell’uomo (inarrestabile deforestazione: 28mila kmq persi solo nel 2024, secondo la Global Forest Review del World Resources Institute), possa rischiare di scomparire in un futuro più o meno prossimo, trasformandosi da lussureggiante foresta pluviale in savana più secca. Il governo brasiliano ha detto no, ad esempio, al principio della regionalizzazione, vale a dire la possibilità per singoli stati e comuni di disporre regole più blande sul “potenziale inquinante” rispetto agli standard nazionali (norma che puntava ad attrarre un maggior numero d’investimenti). O come il mantenimento dello status di protezione speciale per la Foresta Atlantica, impedendo così il taglio indiscriminato della foresta nativa. Oppure l’aver disposto l’obbligo di finanziare soltanto quei progetti con autorizzazione ambientale già approvata. Un altro veto riguarda la Licenza per Adesione e Impegno (Lac), una procedura semplificata che avrebbe portato con una semplice autocertificazione alla realizzazione di progetti a rischio rilevante, come la costruzione di dighe di decantazione delle miniere, che con il rilascio di sostanze chimiche tossiche o metalli pesanti potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza del territorio. Esulta l’ong SOS Mata Atlântica, che la scorsa settimana aveva consegnato a Lula una petizione con oltre 1 milione di firme, raccolte con il sostegno di altre organizzazioni, per bloccare “la deregolamentazione ambientale, l’esplosione della deforestazione, la proliferazione di disastri ambientali e la distruzione della salute della popolazione a causa di ogni forma di inquinamento”. Più contenuta la soddisfazione di Action Aid, con Jessica Siviero, specialista di giustizia climatica della ong, che sostiene: «Un veto completo era essenziale, ma i punti che sono stati annullati rappresentano comunque un progresso». Mentre Gabriela Nepomuceno, esperta di politiche pubbliche di Greenpeace Brasil, ha dichiarato che i veti presidenziali sono «una misura essenziale per correggere gravi distorsioni nel testo approvato dal Congresso».

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva parla durante un'intervista con Reuters al Palazzo Alvorada di Brasilia, Brasile, 6 agosto 2025. REUTERS/Adriano Machado
Il nodo delle concessioni petrolifere
La posta in gioco è altissima: la foresta pluviale amazzonica è la più grande del mondo (oltre 6 milioni di chilometri quadrati) e ospita il 10% delle specie vegetali e animali del mondo. Ed è perciò che gli ambientalisti non hanno apprezzato la scelta di Lula di proporre la “Licenza Ambientale Speciale”, che consentirà al governo federale (qualora fosse approvata dal Congresso) una corsia preferenziale per progetti ritenuti strategici e prioritari. Temono, a ragione, che la mossa possa tra l’altro preludere all’avvio dell’esplorazione petrolifera alla foce del Rio delle Amazzoni, all’estremo nord del paese, nello stato di Amapà, al confine con la Guyana francese. Anche perché nel frattempo il governo federale ha già concesso a diverse compagnie petrolifere i diritti per sviluppare 19 giacimenti petroliferi offshore in quell’area: si tratta di depositi di greggio “pre-salt”, sepolti a migliaia di metri di profondità, intrappolati sotto uno spesso strato (circa duemila metri) di depositi salini. Stessa morfologia di quelli recentemente scoperti da Petrobas nel bacino sud-orientale di Santos. L’asta sulle concessioni porterà lo stato a incassare, soltanto quest’anno, 180 milioni di dollari. Mentre si stima che le compagnie petrolifere investiranno più di 260 milioni di dollari ogni anno per estrarre il petrolio. Gli ambientalisti considerano una contraddizione proporre il Brasile come esempio virtuoso nella lotta contro il cambiamento climatico (emissioni zero entro il 2050, riduzione del 67% di gas serra entro il 2035) per poi investire nella ricerca di combustibili fossili. «Vogliamo il petrolio perché sarà ancora in giro per molto tempo», aveva spiegato Lula pochi mesi fa. «Dobbiamo usarlo per finanziare la nostra transizione energetica, che richiederà molti soldi». Il governo, per voce del ministro delle Miniere e dell’Energia, Alexandre Silveira, ha difeso la “sostenibilità” delle nuove esplorazioni petrolifere: «Sostenibilità significa anche sviluppo regionale, lotta alle disuguaglianze e maggiori opportunità per la popolazione».
Sarà quindi decisivo capire cos’accadrà nelle prossime settimane nel Parlamento brasiliano. Se lo scontro tra blocchi contrapposti riuscirà a superare i veti reciproci e a produrre un testo di legge definitivo in materia di sfruttamento ambientale (più o meno esasperato) che da oltre vent’anni attende di vedere la luce. Con un governo che si trova a lottare frontalmente contro l’estrema destra (che detiene di fatto il potere legislativo), ma con la necessità di trovare nuove risorse (da qui le nuove concessioni per le estrazioni petrolifere) e con le tensioni internazionali innescate dai dazi al 50% imposti da Donald Trump (e perciò il Brasile ha denunciato gli Stati Uniti al WTO, l’Organizzazione mondiale per il commercio).
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Responsabilità legale per gli Stati
Ma c’è un altro problema che il Brasile tutto, dal governo al Congresso, dovrà tenere in considerazione: lo scorso 23 luglio la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha emesso un parere storico, stabilendo che gli Stati hanno una responsabilità legale internazionale nella lotta al cambiamento climatico. Vale a dire che le singole nazioni hanno “l’obbligo di proteggere l’ambiente dalle emissioni di gas serra e di agire con la dovuta diligenza e cooperazione per adempiere a tale obbligo”. E se gli Stati dovessero violare questi impegni, compreso quello sottoscritto con l’Accordo di Parigi, di contenere l’aumento del riscaldamento globale entro la soglia di 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali, incorrono in responsabilità legali e possono essere condannati a cessare la condotta illecita, offrire garanzie di non ripetizione e chiamati a risarcire il danno provocato. Autorizzare ulteriori deforestazioni o scavi in un terreno così ricco di ecosistemi e così fragile come l’Amazzonia potrebbe voler dire esporsi a rischi concreti di cause legali. Insomma, bisognerà trovare un punto d’equilibrio, come spiegava Maria Clara Negreiros, docente dell’Università di Fortaleza, specializzata in diritto ambientale e minerario: «Lo sviluppo sostenibile presuppone un equilibrio tra opportunità economiche e protezione dell’ambiente. La legge dovrà impedire che la flessibilità si traduca in danni irreversibili. Non si tratta soltanto di ridurre la burocrazia, ma di garantire che le imprese adempiano responsabilmente al loro dovere di prevenire e mitigare gli impatti negativi: come l’aumento della deforestazione in aree sensibili, i danni alle comunità tradizionali e alle popolazioni indigene, l’indebolimento della governance ambientale. Per i cittadini la perdita di qualità ambientale può tradursi in impatti diretti sulla salute, sulla sicurezza idrica e su eventi meteorologici estremi».